La dieta mediterranea… olio evo

La dieta mediterranea dal 2010 è patrimonio dell’Unesco. Le motivazioni di tale riconoscimento sono le seguenti: “questo semplice e frugale modo di consumare i pasti ha favorito nel tempo i contatti interculturali e la convivialità, dando vita a un corpus formidabile di saperi, costumi sociali e celebrazioni tradizionali di molte popolazioni del mediterraneo”.

Quella che viene uniformata sotto la definizione di dieta mediterranea non è in realtà un modello alimentare unitario e coerente. In realtà, non è difficile constatare che anche in molte comunità costiere del Tirreno e dello Jonio il consumo di carni bovine e suine (quest’ultime anche sotto forma di salumi e insaccati), di latticini e di formaggi in genere, sia nettamente prevalente rispetto a quello di pesce. Eppure quest’ultimo, specialmente azzurro, ricco di grassi omega 3, si reperisce quotidianamente a prezzi senz’altro abbordabili. Quello che Ancel Keys ha definito come dieta mediterranea, è stato abbandonato come modello alimentare e non è stato mai praticato come modello unitario. Il cibo identitario dei poveri come ci ricorda Vito Teti era pane nero, erbe selvatiche, cibo agricolo. Il cibo “meridiano” è il cibo del mediterraneo è la cultura alimentare del meridione è il cibo identitario. Il cibo meridiano è cosa mangi, come mangi e con chi mangi. Il motto “vivi da ricco, e mangia da povero” è affascinante e in un certo senso è valido, ma bisogna riproporlo come modello alimentare del futuro perché quello che conta è origine e qualità e la qualità è solo il cibo vegetale agricolo biologico, riducendo la quantità.

I temi della prevenzione sono scomparsi e non trovano spazio nell’agenda politica sanitaria. L’allarme ambientale derivante da deforestazione, effetto serra, inquinamento di acqua, di aria, di suolo e di cibo, oltre a minacciare la sopravvivenza della terra, minacciano tutti noi. I fattori nocivi diffusi nell’ambiente sono la causa principale insieme al cibo delle malattie tumorali. Basti pensare che quotidianamente vengono immessi  nell’ambiente circa centomila composti chimici. Li troviamo nell’aria, nell’acqua, nei suoli, nel cibo. L’attuale “sviluppo” economico non è compatibile con la tutela dell’ambiente e della salute. Evitare le malattie praticare la prevenzione non è funzionale al mercato, sicché le risorse che potrebbero andare in educazione e prevenzione, in ricerca e studio, trovano ben pochi canali e consumatori sempre meno competenti e responsabili in fatto di cibo. Ci ammaliamo sempre di più, e compriamo sempre più farmaci. In Italia il consumo di farmaci è cresciuto dal 1999 al 2007 del 13%, in Francia è sceso del 16%. Ogni mese spendiamo un miliardo di euro per farmaci. Noi medici dovremmo dialogare di più, prescrivere esami quando vi è un effettivo bisogno e ridurre il consumo di farmaci. La medicina dovrebbe  essere sobria con meno eccessi rispettosa del cittadino con più ascolto è uguale per tutti con risorse diagnosi e cure uguali per tutti in tutta Italia

Gli unici alimenti che accumunano le popolazioni del bacino del mediterraneo sono l’olio d’oliva e il grano, altro è contaminazione o derivante dall’emigrazione ( pomodori, patate…). La dieta mediterranea, quella praticata, non quella teorizzata è legata a abitudini alimentari diverse e contraddittorie, alcune figlie della fame altre dell’abbondanza.

La produzione del cibo è passata da un trattamento naturale ad uno tecnico-industriale in terreni agricoli sempre più martoriati, cementificati, inondati da chimica e sempre più a contatto con rifiuti tossici. Il cibo sta perdendo il suo valore simbolico di socializzazione, di festa, di incontro di amicizia per ridursi ad elemento di nutrizione non salutare o di avanspettacolo televisivo. Ippocrate scriveva ”un medico deve sapere che cos’è un uomo in rapporto a ciò che mangia e a ciò che beve”, e ancora “il cibo sia la tua medicina e la medicina sia il tuo cibo”. Il rapporto tra stili di vita alimentari e salute ha basi solide. La tutela della salute per noi medici dovrebbe essere un fine e non può diventare una vetrina, un mezzo per apparire per esporre le nostre medaglie da primi della classe. Lavorare insieme ai cittadini per una battaglia collettiva in difesa del diritto alla salute, essere accanto all’altro a chi soffre e non sopra l’altro, o addirittura altrove.

Oggi non è l’uomo a fare la dieta è la dieta è fare l’uomo  Non siamo noi a mangiare il cibo ma il cibo a mangiare noi. Per i greci la dieta, diaìta, significava stili di vita per noi vittime della religione del corpo il Dio di questa nuova religione è l’immagine del corpo-maschio disciplinato nel suo appetito, obbligato a diete perpetue ridotto ad una compattezza di un fascio di muscoli di nervi ed ossa L’attenzione salutista del proprio corpo bilancia il culto dell’abbondanza alimentare; la dieta è girovita, riduzione di calorie, peso e misure, con il rischio di disordini alimentari: eccessivo uso di proteine, depressioni, frustrazioni. Abbiamo gli ayatollah della magrezza al seguito dei guru dell’alimentazione con una disciplina ferrea fatta di poco cibo proteico che definiscono leggero di molta palestra, fitness, anfetamine, vivono da malati per morire sani. Poi abbiamo i consumatori di cibo chic che seguono i dettami dei tanti masterchef di turno che dilagano in televisione. Loro devono stupirti con la rivisitazione del piatto con la fusion modaiola con la cucina d’avanspettacolo il piatto  è presentazione. Bollano come maiali sfigati i Nandi di turno sorpresi a fare la scarpetta nella teglia unta dove la Sora Lella ha preparato l’amatriciana. Poi vi sono quelli che ingurgitano tutto, mangiano così tanto fino al punto che non possono più mangiare nulla. Il loro rapporto con il cibo soprattutto nei momenti festivi è una mescolanza di processioni con indigestioni, di balli con sballi alimentari. L’attenzione al mangiar bene e al mangiar meno non deve essere liquidata come la mania di chi vuole perdere qualche chilo prima dell’estate. Stiamo parlando di salute e di una scelta vitale per la salute e per la sopravvivenza di intere fasce di popolazione.

La globalizzazione ha sostituito però la cucina tradizionale povera con una omologazione del gusto facendoci perdere sapori, memoria, tradizioni e sostenibilità. Il cibo sta perdendo il suo valore simbolico di socializzazione, di festa, di incontro di amicizia per ridursi ad elemento di nutrizione non salutare o di avanspettacolo televisivo. Ma il cibo dovrebbe essere buono, sostenibile per l’ambiente, del territorio e a km zero.

L’industria agroalimentare è una fabbrica di cibo che con una catena di montaggio controlla tutto dal seme al supermercato. Il cibo, vettore di molti diritti, tra cui il diritto alla salute, è diventato soltanto merce.  La produzione di cibo è passata da un cibo agricolo sano e naturale ad uno tecnico-industriale con l’immissione della chimica nel comparto alimentare. Per il mercato della sanità è meglio curare che prevenire. Il mercato continua a produrre cibo in eccesso produciamo cibo per 12 miliardi di persone ma i viventi sono 7 miliardi Il mercato della salute propone rimedi per l’obesità, il diabete, i disturbi cardiocircolatori in cui hanno un peso determinante  i danni da cibo altamente industrializzato  e quelli di uno stile di vita sempre più sedentario.  In Italia vi sono sette supercentrali d’acquisto che aggregano 21 catene della grande distribuzione l’80% del mercato appiattendo la contrattazione a danno di produttori e consumatori.

“Un consumo massiccio di carne rossa può aumentare del 43% il rischio di contrarre alcuni tipi di tumore(Fonte:World Cancer Research Fund,2011)” L’educazione del cittadino ad una alimentazione buona, pulita  e giusta è anche educazione al rispetto dell’ambiente ,delle risorse della terra e della vita intera. Una bistecca richiede il consumo di 2600 litri di acqua. Il 30% della superficie agricola del pianeta oggi è occupato da coltivazioni destinate alla produzione zootecnica ottenuta mediante la deforestazione di terreni per fare spazio a cereali e leguminose tra cui mais, soia oppure pascoli. La produzione di carne incide nell’18% dell’effetto serra per l’emissione carbonica, per il trasporto degli animali e per la distribuzione della carne. Gli animali sono trattati come macchine per la produzione di cibo vivono pochi anni o nel caso dei polli solo poche settimane. E una volta macellati sono smaltiti come scarti industriali. Ma gli allevamenti possono anche essere estensivi in cui gli animali si nutrono di erba, fieno, cereali prodotti localmente nel pieno rispetto dell’ambiente, con allevatori che li trattano con rispetto. L’educazione alimentare e con essa la conoscenza è alla base della prevenzione  delle malattie croniche. Un investimento e non uno spreco La difesa della salute della madre terra è difesa della nostra salute. Il consumo responsabile significa cominciare a leggere l’etichetta e interessarsi della provenienza del cibo. Gli studi epidemiologici negli ultimi anni hanno dimostrato che più ci avviciniamo allo stile dell’alimentazione mediterranea tradizionale, dove troviamo cereali integrali, legumi, verdura, frutta, noci, nocciole, mandorle, olio d’oliva, un po’ di vino, e meno ci ammaliamo di infarto, ictus, cancro, Alzheimer, malattie infiammatorie. Gli studi sono molto chiari a riguardo: lo stile mediterraneo è protettivo nei confronti delle malattie croniche del nostro tempo».

Obesità, diabete, malattie cardiovascolari, tumori, morbo di Alzheimer. Oggi il cibo sulle nostre tavole può voler dire salute, oppure no.  La dieta mediterranea  è una filosofia, un modo di essere, è uno stile di vita, è equilibrio ambientale, cibo sano, variato e senza eccessi. Non si tratta di nutrizionismo, ma di ripercorrere la saggezza di un territorio. Una saggezza che si può applicare ovunque, riproporre, adattare a qualsiasi paniere di ingredienti locali, ingredienti di cui dovremmo conoscere la provenienza. E’ il cibo a filiera corta, è il cibo del territorio è il cibo identitario è il cibo dei piccoli produttori. Ma esiste ancora ?

La risoluzione dell’UNESCO, che ha riconosciuto il valore immateriale della dieta mediterranea, ha contribuito a spostare l’attenzione dai singoli alimenti ai comportamenti che vanno analizzati senza incorrere nella retorica della riscoperta, della classicità o della naturalità. Ma anche nel cibo, il Sud ha dimostrato una sudditanza passivamente accettata anche al cibo globale senza alcuna voglia di riscatto, una popolazione che non ha creduto in sé stessa. In Italia purtroppo si è assistito a un deciso allontanamento dalla tradizionale Dieta Mediterranea Italiana di riferimento, con aumento delle patologie cronico degenerative non trasmissibili legate allo stile di vita sedentario, ma soprattutto alle abitudini alimentari sbagliate, con consumi elevati di cibo di bassa qualità che oscilla tra grassi saturi e cereali raffinati.

La dieta mediterranea non è privazione, è misura, è regola, socialità, convivialità privilegiando i prodotti della terra; il trittico: frumento, olio, verdure e legumi. Frutta con guscio nocciole, pistacchi, mandorle, noci (elementi ricchi di omega 3) ;cereali, legumi, olio d’oliva, pane, pasta pesce due volte a settimana carne una volta a settimana e anche meno se proveniente da allevamenti intensivi. Cibo che viene dalla terra, da quello che noi abbiamo ulivo, olio; vite, vino; frumento, pane e pasta; mare, pesce azzurro. I grassi acidi insaturi svolgono un’ importante azione di riequilibrio ed antiinfammatoria. I carboidrati non raffinati e quindi integrali sono ricchi di polifenoli possedendo azione antiossidante. Buona parte delle verdure oltre alle vitamine e ai sali minerali contengono sostanze come l’ossido nitrico che è fondamentale nella regolazione della pressione. Le fibre vegetali presenti nella crusca accelerano la motilità intestinale, liberando l’organismo dalle sostanze tossiche. L’ olio extra vergine d’oliva, ricco di polifenoli, aiuta a proteggere le membrane cellulari dai danni ossidativi provocati dai pericolosissimi radicali liberi.

L’etichetta che peraltro non leggiamo aiuta poco. È il caso dei prodotti etichettati come integrali e che costano più degli altri: pane, pasta, fette biscottate, crackers, prodotti da forno, biscotti e dolci. La maggior parte di essi è prodotta con farina raffinata industrialmente (la cosiddetta 00) a cui viene aggiunta una crusca devitalizzata e finemente rimacinata, ossia un residuo della lavorazione di raffinazione. Ad esempio il “non pane integrale” che si trova in ogni supermercato, contrariamente al pane integrale ha un colore chiaro da farina raffinata inframmezzato da punti scuri (la crusca macinata riaggiunta).

La cittadinanza e il cibo sono stati privati di una storia millenaria ormai siamo alla negazione di quel legame stretto tra gusto, sapori, bontà e diritto al cibo sano e al vino naturale che sono alla base della tradizione popolare e della salute. Il cibo è un diritto e ha un valore, non esiste soltanto l’economia esiste anche la tutela della salute esiste anche l’etica pubblica esiste la tutela del territorio, la bellezza del paesaggio, e quindi dovrebbe esistere anche il consumo responsabile. Un conto è assaggiare ogni tanto i prodotti animali e caseari della tradizione un conto è farne un uso quotidiano, dimenticando che quei prodotti si mangiavano nelle festività.

E’ bene evitare i cibi raffinati e i grassi, oltre ad alcuni metodi di cottura, come la brace e la frittura.

” Si stima che il 42% di tutti i casi di cancro e quasi la metà di tutti i decessi per cancro negli Stati Uniti nel 2014 siano attribuibili a fattori di rischio valutati, molti dei quali potrebbero essere stati mitigati da efficaci strategie preventive “Se questa fosse una pillola, l’articolo verrebbe intonacato sulla prima pagina di ogni giornale e tutti noi saremo incaricati di prenderlo indipendentemente da quanto costi. Ma non è una pillola. È uno stile di vita sano, libero e dal quale nessuno può fare profitti. Quindi, possiamo dimenticarcene e proviamo a salvare noi e chi ci sta a cuore con il cibo da agricoltura sana.

La dieta mediterranea è equilibrio ambientale, cibo sano, cibo agricolo biologico, in larga parte variato e senza eccessi. Ecco: non si tratta di nutrizionismo, ma di ripercorrere la saggezza e la cultura di un territorio. Una saggezza che si può applicare ovunque, riproporre, adattare a qualsiasi paniere di ingredienti locali.  La provenienza, l’appartenenza, l’identità delle persone sono riconoscibili da quello che mangiano e da come trattiamo il cibo. Sulla validità scientifica, ecologica e medica di questo modello alimentare non vi sono dubbi il vero problema che in molti casi il cibo che dovremmo consumare è industriale e non tiene conto di provenienza e origine del cibo.

Il Codice Europeo contro il Cancro, si basa su tre suggerimenti:

  • mangia cereali integrali, legumi, verdura e frutta(la frutta zuccherina va invece ridotta se il tumore è già conclamato, in quanto gli zuccheri alimentano la cellula tumorale)
  • limita i cibi ad alto contenuto calorico(cibi con alto contenuto di zuccheri e grassi) ed evita le bevande zuccherate.
  • evita la carne conservata; limita la carne rossa ed evita la carne da allevamenti intensivi e i cibi ad alto contenuto di sale.
  • Alimentazione sostenibile: i principi

    Con il termine sviluppo sostenibile si intende uno sviluppo in grado di assicurare «il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri» *.

    Oggi giorno, seguire un’alimentazione sostenibile è il primo passo per garantire al Pianeta il benessere che merita. Una scelta consapevole, insomma, che riguarda il nostro modo di stare al mondo, e che parte da quello che portiamo sulla nostra tavola. La sostenibilità alimentare è fondamentale, inoltre, anche per la nostra salute: siamo quello che mangiamo, e non lo dobbiamo dimenticare mai.
    Scelte alimentari e di produzione sostenibili permettono un minor consumo di suolo, di acqua ed energia, limitando l’uso di pesticidi, la deforestazione, gli allevamenti intensivi e le emissioni di anidride carbonica in atmosfera. Noi di ALDI cerchiamo di fare la nostra parte, non solo rispettando tutti gli standard previsti dalla legge, ma impegnandoci ad offrire cibi sostenibili che uniscono la qualità alla convenienza.
    Ma non ci limitiamo solo a questo: amiamo, infatti, la tradizione del bel Paese ed è per questo che, tra i nostri scaffali, potrete trovare sempre le eccellenze regionali del tutto BIO.

    Alimentazione sostenibile: cos’è

    Dal produttore al consumatore, passando per il distributore: la strada che gli alimenti percorrono prima di arrivare sulla nostra tavola si sta pian piano riducendo. In altre parole, si sta creando una cultura alimentare diversa, fondata sulla riduzione degli sprechi e sull’attenta selezione dei prodotti biologici e dei fornitori. Ecco cos’è la sostenibilità alimentare.

    È in crescita, infatti, il settore biologico certificato, che punta a promuovere un’alimentazione sostenibile che garantisca il consumo di prodotti naturali, dal punto di vista nutrizionale ed etico. Al tempo stesso, si opta per soluzioni che:
    – proteggano il suolo e le risorse idriche impiegate, evitando sistemi invasivi e distruttivi dell’ambiente;
    – producano basse emissioni di carbonio e azoto;
    – siano attente alla conservazione della biodiversità.

    I consumatori chiedono sempre più frequentemente cibo biologico, che rispetti e tuteli la natura, la stagionalità del prodotto, prediligendo realtà locali e tradizionali.
    Il mercato sta vertendo sempre di più verso soluzioni a km 0, in grado di valorizzare il lavoro dell’agricoltore e le produzioni locali, riducendo i costi logistici, di stoccaggio, trasporto e conservazione degli alimenti. L’etichetta bio rappresenta una certezza per il consumatore più attento, che preferisce valutare e scegliere i produttori che danno valore alla tutela dell’ecosistema, alla qualità della vita dei loro animali, alla scelta di tecniche di agricoltura biologica.

    Sviluppo sostenibile e alimentazione sono strettamente correlati. Le nostre scelte sono importanti, a partire dai prodotti che portiamo sulla nostra tavola. Non dobbiamo dimenticare mai che siamo chiamati in prima persona nella salvaguardia nel Pianeta. Siamo i protagonisti del cambiamento, e lo siamo adesso.
    Scegliere un’alimentazione sostenibile, infatti, non vuol dire solo nutrirsi con cibi biologici, nutrizionalmente sani. Vuol dire compiere un passo fondamentale per la conservazione della biodiversità e dell’ecosistema nel suo complesso.
    300 anni fa, il concetto di sostenibilità alimentare, legata alla dieta quotidiana, sembrava paradossale. All’epoca, infatti, i cibi venivano prodotti seguendo la natura e i sistemi agricoli rispettavano in tutto e per tutto l’ecosistema. Oggi, con l’aumento della popolazione e la continua richiesta in grande quantità di alimenti anche al di fuori della loro stagionalità, si sono creati modelli che non sposano la causa del Pianeta. Risulta imprescindibile, quindi, ripensare da una parte ai sistemi di produzione, e dall’altra a un’alimentazione più sostenibile possibile.

    Con agricoltura biologica si fa riferimento a una tecnica di coltivazione e di produzione dei prodotti alimentari rispettosa dei cicli di vita naturali; è una modalità di agricoltura che si pone l’obiettivo di minimizzare l’impatto delle attività umane sull’ambiente naturale il più possibile e i cui principi fondamentali sono i seguenti:

    • Le colture sono ruotate in modo che le risorse vengano utilizzate nel modo più efficiente;
    • Pesticidi chimici, fertilizzanti sintetici, antibiotici e altre sostanze vengono drasticamente limitate;
    • Gli organismi geneticamente modificati (OGM) sono vietati;
    • Vengono sfruttate risorse in loco anche per fertilizzare il terreno.

    Per rispettare al meglio questi principi e far sì che le colture siano comunque altamente produttive, si ricorre a svariate tecniche naturali al 100%. Ad esempio, si attua la salvaguardia degli insetti utili, antagonisti dei parassiti; si scelgono piante più resistenti; si pratica la pacciamatura, che consiste nel coprire il terreno con fieno o erba fresca per proteggerlo dagli sbalzi termici e ostacolare la crescita delle erbe infestanti; si utilizza il sovescio, ossia la semina di alcune piante (trifoglio, veccia, crescione, valerianella, spinaci, colza etc…) che, una volta fiorite, vengono tagliate e interrate per fertilizzare il terreno e proteggerlo dall’erosione; si pratica la rotazione delle colture, che consiste nell’alternare la coltivazione di piante che migliorano la fertilità del terreno, arricchendolo di azoto, con piante che invece lo impoveriscono, sottraendo elementi nutritivi; si utilizzano concimi organici come il compost, una miscela di terra, resti vegetali e cenere.

    Il nostro Paese, per quanto riguarda questa tipologia di agricoltura, è indubbiamente all’avanguardia: l’Italia è infatti collocata tra i primi posti in Europa per l’export di prodotti di origine biologica.

    In Italia, inoltre, la superficie dei terreni dedicati alla coltivazione biologica è in continuo aumento: questo fenomeno non sembra riguardare unicamente il bel Paese, ma è riscontrabile anche a livello globale, dove l’interesse per il mondo “bio” è in continua crescita, pur se con forti differenze a seconda delle regioni prese in considerazione.

    Nonostante sia più comune, parlando di biologico, pensare alle coltivazioni vegetali, alle distese di cereali e alle piante da frutta, anche l’allevamento biologico ha un ruolo fondamentale, estremamente rilevante per favorire uno sviluppo più in armonia con le leggi naturali del pianeta.

    Per essere biologico un allevamento deve rispettare alcuni requisiti fondamentali, tra cui:

    • Il bestiame deve essere allevato all’aria aperta e nutrito con foraggio biologico;
    • È vietato l’impiego di razze ottenute mediante manipolazione genetica;
    • Il numero dei capi allevati, sulla superficie dell’allevamento, deve assicurare comunque che ciascun animale abbia uno spazio idoneo;
    • Le razze allevate devono essere preferibilmente locali, affinché possano integrarsi al meglio con l’ambiente e il contesto circostante;
    • Il trasporto degli animali per l’abbattimento deve essere il più breve possibile e non deve affaticare eccessivamente gli animali, non si possono utilizzare calmanti. Il carico e lo scarico del bestiame deve essere attuato in modo dolce e l’abbattimento deve essere effettuato limitando la tensione degli animali;
    • La macellazione deve essere effettuata rispettando l’identificazione e assicurando la separazione degli animali biologici da quelli convenzionali;
    • Grazie all’allevamento biologico si possono produrre alimenti più sani e naturali che non contengono residui tossici.

    Packaging riciclabile

    Per ridurre la produzione di plastiche, la Commissione europea ha lanciato la prima strategia contro la plastica: entro il 2030 tutti gli imballaggi, le confezioni in plastica presenti sul mercato dovranno essere convertiti in packaging riciclabile.
    Il consumo di plastica monouso nel frattempo verrà ridotto e l’uso intenzionale delle microplastiche verrà limitato. Saranno anche sviluppati dei marchi per produrre plastiche biodegradabili e compostabili.

    Gli obiettivi dell’Unione Europea in questa direzione, sono tre:

    • Proteggere l’ambiente dall’inquinamento da materie plastiche.
    • Promuovere la crescita e l’innovazione grazie a una nuova economia delle materie plastiche, in cui la progettazione e la produzione rispettino pienamente le necessità del riutilizzo, della riparazione e del riciclaggio.
    • Incentivare la produzione di materiali sostenibili.

La nostra ricchezza economica è basata sullo sfruttamento di altri popoli. La grande produzione di carne che serve per alimentare il mondo ricco comporta la deforestazione in cui si fa spazio a grandi monoculture di cereali e legumi per cibare i bovini. Le grandi monocolture nei Paesi del terzo mondo espropriano i contadini dalla propria terra. Le monocolture affamano. Dunque, non ci meritiamo un bel niente.

 

In Italia, la speranza di vita è aumentata di ben 10 anni negli ultimi 40 anni: questo è dovuto ai grandi progressi della medicina e alla tecnologia sanitaria meravigliosa di diagnosi e di cura.

 

I farmaci – come quelli per la pressione che riducono la mortalità per ictus cerebrale e infarto, per scoagulare il sangue o per i trigliceridi – allungano la vita col risultato che oltre il 90% della popolazione anziana (sopra i 65 anni) sopravvive grazie ai farmaci ed è costretta a prenderne tutti i giorni (compresi quelli per controllare gli effetti collaterali degli altri farmaci).

Le raccomandazioni per una vita longeva e in salute delle maggiori istituzioni scientifiche internazionali trovano sempre più punti di accordo con molti precetti delle antiche sapienze. Scienza e tradizione spesso concordano, eppure aumenta l’incidenza dei tumori e delle malattie croniche, soprattutto nei Paesi occidentali. Come mai?

L’Organizzazione Mondiale della sanità, come l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, fornisce raccomandazioni puntuali ed effettivamente, dopo tanta ricerca e tanti sforzi, si scopre che andava bene come si faceva prima. La raccomandazione per la prevenzione dei tumori, che poi si è rivelata utilissima per la prevenzione delle malattie cardiache, respiratorie e della mortalità in generale, è che va bene mangiare tutti i giorni cereali integralilegumiverdurefrutta e frutta a guscio, come facevano tutti i popoli del mondo prima della rivoluzione industriale. Uno studio pubblicato su The Lancet nel 2018, svoltosi su oltre 15 mila adulti tra i 45 e i 64 anni, ha osservato come sia un basso (<40% dell’apporto calorico) che un alto consumo di carboidrati (>70%) siano associati a un rischio di mortalità maggiore rispetto all’assunzione di questi nutrienti secondo la Dieta mediterranea (50-55%).

La dieta degli abitanti delle Blue Zones, le aree dove si vive più a lungo, è ricca di carboidrati
Nelle cinque Blue Zone, le aree del mondo dove si vive più a lungo, i più longevi sono tutti magri e il consumo di carboidrati va dal 50 al 60%. A Okinawa (Giappone) consumano il 58% di carboidrati a basso indice glicemico (patate associate a molte verdure e legumi, soprattutto soia); nell’Ogliastra, in Sardegna, il consumo di carboidrati si attesta tra il 62 e il 67%, prevalentemente grano duro, orzo e patate; a Nicoya (Costa Rica) fagioli e mais sono sempre a tavola insieme ad abbondanti verdure e anche a Ikaria (Grecia) sono i legumi a farla da padrona a tavola.

Alla base della piramide della Dieta mediterranea ci sono verdure e carboidrati. Ma in quale quantità? I Larn (Livelli di assunzione di riferimento per nutrienti ed energia) indicano che i carboidrati devono coprire il 45%-60% del fabbisogno calorico giornaliero. Di questi, massimo il 15% può provenire dagli zuccheri semplici. Questo vuol dire che più della metà di quello che mettiamo sul piatto deve essere composto da carboidrati. In pratica un adulto che svolge attività fisica moderata e consuma 2.000 kcal al giorno, dovrebbe mettere nel piatto circa 275 g di carboidrati, di cui zuccheri semplici massimo 75 g.

Noi, ad esempio, mangiavamo pasta e fagioli, pasta e lenticchie, pasta e ceci o con le fave; in Nordafrica si mangiava il cous cous coi ceci; in Oriente il riso con la soia; in Messico i fagioli neri con tortillas di mais; nell’Africa nera le arachidi col miglio: le grandi tradizioni culturali hanno sempre raccomandato di mangiare poco, favorendo anche forme di digiuno.

Gli studi degli ultimi 100 anni, inoltre, confermano che se diamo agli animali un po’ meno da mangiare rispetto a un’illimitata disponibilità, questi vivono di più e si ammalano di meno. Molte istituzioni economiche, però, purtroppo non hanno alcun interesse nella prevenzione perché c’è un business che deve crescere: la depressione, ad esempio, fa aumentare il Pil: le insicurezze e il malcontento spingono le persone ad acquisti di beni di cui molto probabilmente non avrebbero necessità. Anche il peso corporeo, rispetto ad alcune forme di obesità ad esempio, è ulteriore manifestazione di questo bisogno di accumulare.

Quali schemi alimentari dovremmo conoscere e seguire (davvero) contro l’iper-alimentazione e per un’alimentazione più sana?

La dieta mediterranea tradizionale basata sui cereali non raffinati, frutta e verdura, frutta a guscio, pesce nei luoghi di mare e carne come alimento occasionale si è dimostrato che si associ a un minor rischio di ammalarsi delle principali malattie croniche, riduca l’incidenza del cancro, di infarto e di alcune malattie degenerative.erché sono ancora più yang.

 

Le informazioni della scienza oggi concordano. Il codice europeo contro il cancro, ad esempio, dice di evitare bevande zuccherate e alcoliche, che per la macrobiotica sono squilibrati verso lo yin. Anche la frutta è più sbilanciata verso lo yin, ma è uno sbilanciamento tollerabile.

 

In cosa consiste, ancora, la dieta antinfiammatoria?

La dieta mediterranea tradizionale, infine, è una dieta antinfiammatoria. Il cibo animale, eccetto il pesce, aumenta l’infiammazione e il cibo che aumenta l’infiammazione è quello che fa aumentare la glicemia: glicemia alta significa la formazione degli Advanced glycation End-products che sono un fattore dell’infiammazione e agiscono attivando l’NFkB, il principale mediatore dell’infiammazione. L’infiammazione cronica, ancora, è un fattore di rischio per i tumori. La dieta antinfiammatoria è prevalentemente vegetale

Come praticare saggiamente una forma di digiuno adatta ai ritmi di vita metropolitani con efficacia per la nostra salute?

La forma di digiuno più semplice è saltare la cena, che oggi però corrisponde al pasto principale della giornata perché si tende al mattino a bere un caffè al volo, a pranzo si mangia al bar mentre la sera è l’unico momento in cui si riunisce la famiglia.

E’ difficile conciliare il digiuno coi ritmi metropolitani: neanche digiunare un giorno alla settimana, come sarebbe sensato fare, è facile. Bisogna scegliere il proprio ritmo ed è bene che comprenda una cena molto leggera.

 

Alcune ricerche sono chiarissime a riguardo. Uno studio condotto in Israele ha suddiviso un campione di donne in sovrappeso in due gruppi sottoponendole a una dieta ipocalorica che prevedeva lo stesso numero di calorie da consumare in un giorno: un gruppo faceva una colazione molto abbondante e una cena leggera mentre il secondo gruppo poteva mangiare di più a cena invece che al mattino. Il primo gruppo è dimagrito migliorando anche diversi parametri ematici come la riduzione dell’insulina.

 

In pazienti con cancro alla mammella, più è lungo l’intervallo c’è tra l’ultimo pasto del giorno e la colazione del mattino e meno ci sono recidive. Nelle ragazze con ovaio policistico è risultato molto efficace saltare la cena per ridurre l’insulina.

Abbandonare le abitudini. La longevità non si conquista soltanto a tavola, riguarda anche il corpo e la mente: le tre vie per una salute duratura coinvolgono l’uomo in tutte le sfere dell’essere (comprese le relazioni interpersonali, lo sviluppo delle diverse intelligenze e il rispetto per l’ambiente). Come si può rinascere?

Non siamo fatti solo di intestino e organi da nutrire. Nel libro “Ventuno giorni per rinascere” si spiega come il vero cambiamento delle abitudini debba coinvolgerci in pieno, facendo un vero lavoro su di noi e sul cervello limbico in cui sono scritte le nostre abitudini: il cervello limbico desidera che si ripetano esperienze ed emozioni piacevoli, è attratto dalla bellezza esteriore.

secondo uno studio condotto dall’Università della California a Davis e dal Western Human Nutrition Research Center, nell’intestino delle persone che consumano regolarmente una buona quantità di fibra alimentare (almeno 8-10 g al giorno) e hanno una dieta ben diversificata, compaiono meno frequentemente batteri resistenti agli antibiotici. La resistenza batterica agli antibiotici è uno dei principali problemi sanitari del nostro tempo, destinato ad aggravarsi nei prossimi decenni. Spesso i batteri che presentano resistenza agli antibiotici sono localizzati proprio nell’intestino, e la scoperta che il regime dietetico può influenzare questo fenomeno, apre le porte a strategie di prevenzione basate su una corretta alimentazione.

Il nostro intestino ospita una ricca comunità di microrganismi, definita microbiota, la cui composizione dipende da numerosi fattori e ha effetti importanti sulla nostra salute

“Le caratteristiche del microbiota intestinale dipendono da diversi fattori: oltre a una componente genetica, poco rilevante, la composizione di questa comunità dipende dai ceppi trasmessi dalla madre al momento del parto e durante l’allattamento, dall’utilizzo di antibiotici e, in buona parte, dall’alimentazione. Il fatto di nutrirsi in modo più o meno vario, con prevalenza di proteine, carboidrati o grassi, di origine vegetale oppure animale, modifica la composizione del microbiota. Lo studio californiano lo conferma: chi si nutre di alimenti che contengono una quantità elevata di fibra alimentare, fa crescere nel proprio intestino i microrganismi che si nutrono di fibra, e questi mostrano più difficilmente resistenza agli antibiotici.”

I microrganismi ospitati nel nostro intestino   si nutrono di ciò che il nostro apparato digerente non è in grado di digerire e assimilare e in questo modo producono energia, oltre a numerose sostanze che, a seconda dell’‘assortimento’ di microrganismi, possono essere utili oppure dannose. Fra le sostanze utili ricordiamo gli acidi grassi a catena corta, prodotti dalla degradazione della fibra alimentare, molecole che favoriscono l’integrità della barriera che protegge l’intestino impedendo il passaggio nel sangue di batteri patogeni e sostanze nocive. Inoltre, producono molecole ad azione antinfiammatoria, vitamine, precursori di ormoni e neurotrasmettitori. Una serie di ‘messaggeri’ che contribuiscono a mantenere in salute l’intestino, e non solo.”

dieta sana
Chi segue una dieta ricca di fibre fa crescere nel proprio intestino microrganismi che se ne nutrono

“Quando il microbiota non è in condizioni ottime si parla di ‘disbiosi’. Questo accade, per esempio, se si segue per lunghi periodi un’alimentazione sregolata, oppure dopo l’assunzione prolungata di antibiotici: alcuni ceppi di batteri ‘buoni’ possono sparire e lasciare il posto a microrganismi che favoriscono l’infiammazione e una condizione detta ‘intestino permeabile’.  In questo caso, la parete intestinale, divenuta più permeabile, lascia passare sostanze nocive che raggiungono il circolo sanguigno e hanno diversi effetti negativi. Sono infatti connesse a condizioni come l’obesità, il diabete, la steatosi epatica (o ‘fegato grasso’) e alcune forme tumorali. Si è visto inoltre  che la presenza in circolo di queste sostanze stimola il sistema nervoso ad attivare una barriera protettiva.In questo modo però, si riducono anche le normali comunicazioni fra il sistema nervoso e il resto del corpo, e questo può avere come risultato disturbi psichici come ansia e depressione.”

Secondo questo quadro, quindi, i disturbi intestinali considerati psicosomatici, come gonfiore e stitichezza, non sarebbero conseguenza di un malessere psichico bensì, viceversa, ansia e depressione potrebbero essere causate da un’alterazione del microbiota intestinale.

Cosa possiamo fare per salvaguardare questa preziosa comunità di microrganismi? “Il primo consiglio è di consumare alimenti ricchi di fibra – dice l’esperta – sia solubile, come quella contenuta per esempio nella frutta (in particolare nella buccia delle mele), nell’avena e nei carciofi, sia insolubile, come quella dei cereali integrali. Poi occorre ridurre i grassi animali, perché favoriscono la permeabilità intestinale. Inoltre, è utile consumare alimenti fermentati, come yogurt e kefir, che contengono microrganismi ‘buoni’, i cosiddetti probiotici. In tutti i casi è importante imparare ad ascoltare i segnali che manda il proprio corpo, come gonfiore o dolore addominale, ma anche sbalzi di umore, mal di testa e prurito generalizzato. Tutti questi sintomi possono essere correlati a squilibri del microbiota intestinale e si possono affrontare.” Occorre allora sradicare certe vie e consolidarne di nuove: ad esempio, se a un periodo di dieta non corrisponde anche una presa di coscienza sull’alimentazione consapevole, allora presto torneremo a mangiare come prima

Ceci, fagioli, lenticchie… le leguminose che fanno bene alle tasche, alla salute ed all’ambiente

L’assunzione di proteine vegetali è in aumento in molte regioni dell’UE, in particolare nell’Europa occidentale e settentrionale. A tale dato corrisponde uno sviluppo del mercato delle alternative alla carne e ai prodotti lattiero-caseari con tassi di crescita annua che toccano rispettivamente il 14% e l’11% (dato europeo). In questa panoramica che include un cambiamento delle abitudini alimentari, i legumi giocano un ruolo fondamentale essendo un’importante fonte vegetale di proteine, oltre che di minerali, vitamine, amidi a basso indice glicemico e fibre. Il trend positivo di produzione dei legumi arriva dopo una drastica diminuzione che ha colpito l’Italia a partire dagli anni ’60 e che ha raggiunto il suo picco peggiore nel cinquennio 2010-2015. Non è un caso se il calo di produzione di leguminose alimentari sia avvenuto in contemporanea al boom economico data la loro fama di “cibo povero” dovuta al basso costo, ma accanto al problema di percezione bisogna ricordare come la scarsa richiesta da parte dei consumatori abbia portato i contadini ad abbandonare la loro coltura sebbene storicamente il consumo di legumi fosse molto diffuso nell’area Mediterranea.

Oltre alla motivazione che riguarda la promozione di una dieta bilanciata ricca di legumi anche utilizzati come ingrediente principale per prodotti quali pasta 100% legumi, la loro coltivazione è da incentivare perché rappresentano un presidio ecologico. Capaci di assorbire l’azoto presente nell’atmosfera e di trasformarlo in azoto organico grazie ai loro microrganismi, la coltura delle leguminose è definita “miglioratrice”, cioè in grado di migliorare sia la fertilità sia la struttura fisica del terreno. Tale caratteristica la rende una coltivazione particolarmente adatta alla rotazione – pilastro di un’agricoltura sostenibile –, oltre ad attribuirle un ruolo importante nella riduzione delle emissioni di Ghg (greenhouse gases: gas serra). Le leguminose, infatti, fissano l’azoto lasciandolo nel suolo a disposizione della coltura successiva, rendendo così possibile un’importante riduzione delle fertilizzazioni azotate – grande fonte di inquinamento ambientale da nitrati – senza compromettere la produttività.

Il problema del gas a effetto serra è strettamente legato alla dieta dato che il 23% delle emissioni umane di Ghg deriva dalle deforestazioni e dalle trasformazioni del suolo connesse all’agricoltura industriale. L’approfondito studio dell’Ipcc (comitato intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite) del 2019 intitolato Climate Change and Land sottolinea come siano necessarie delle modifiche nell’uso del suolo nell’agricoltura e nelle abitudini alimentari per far fronte ai cambiamenti climatici. La perdita di produttività della terra, infatti, ha come conseguenza il degrado del terreno che porta all’erosione e, successivamente, alla desertificazione. La gestione sostenibile del territorio, considerata utile per la conservazione della terra, include tra le misure suggerite anche la rotazione delle colture e le colture di copertura; entrambe tecniche che vedono nella coltivazione dei legumi una valida scelta.

Le leguminose svolgono, difatti, un ruolo importante nel miglioramento strutturale del suolo, nell’aumento della sostanza organica anche negli strati più profondi del terreno, oltre che essere particolarmente consigliate per tenere il terreno coperto nell’intervallo di tempo che intercorre tra le colture principali. Un incremento di tali coltivazioni deve inevitabilmente corrispondere a una richiesta di mercato che riflette una dieta ricca di cibi a base vegetale. Gli esperti dell’Ipcc sottolineano come le scelte alimentari influiscano sull’ambiente a partire dal dato che vede il consumo di carne a livello mondiale più che raddoppiato negli ultimi 60 anni. Un’informazione, quest’ultima, da leggere ricordando il peso dell’allevamento in termini di risorse, quali acqua e terra.

Le leguminose svolgono un ruolo importante nel miglioramento strutturale del suolo

A fronte del report dell’Ipcc che indica la transizione alimentare verso diete a base prevalentemente vegetale come una delle “più importanti opportunità di adattamento e mitigazione ai cambiamenti climatici generando significativi benefici in termini di salute umana”, i legumi e il loro sfruttamento in agricoltura rappresentano un elemento chiave tanto da far nascere Increase (Intelligent Collections of Food-Legume Genetic Resources for European Agrofood Systems), un nuovo progetto di ricerca europeo che coinvolge 28 partner, tra cui la Fao, di 14 paesi diversi. Partendo dall’analisi dello stato delle risorse genetiche vegetali di 4 importanti legumi tradizionali europei (ceci, fagioli, lenticchie e lupini), l’iniziativa ha come obiettivo la creazione di strumenti e metodi di conservazione per favorire la biodiversità agricola in Europa e promuovere la coltivazione e il consumo di leguminose alimentari. Increase intende anche intervenire nell’attuale carenza che costringe l’Italia a dipendere dall’importazioni di legumi per soddisfare la propria domanda. Tra gli scopi di Increase c’è anche quello di mettere alla prova un approccio decentralizzato per la conservazione delle risorse genetiche e di aumentare la conoscenza dei cittadini sulla biodiversità dei legumi. A partire dal 2021, a chi ne farà richiesta saranno distribuite più di 1000 diverse varietà locali di fagiolo comune da coltivare nei campi, negli orti o nei giardini di casa. Questo coinvolgimento attivo nelle attività di conservazione, coltivazione, condivisione e scambio di sementi verrà veicolato tramite un’App mobile appositamente creata per Increase.

Come risposta all’emergenza climatica, oltre che alla questione di salute alimentare, la partecipazione reale è forse il mezzo più efficace per condividere la responsabilità che ognuna e ognuno di noi si deve assumere davanti al futuro del Pianeta. Aumentare la sensibilità nei riguardi dell’ecosistema terrestre a partire dalla diffusione di conoscenze fa sì che i vari strati della popolazione possano riconoscere il peso delle scelte individuali: evitare di rendere la dieta equilibrata e sana nonché la coltura delle leguminose appannaggio dei consumatori coscienziosi o degli agricoltori lungimiranti rappresenta una forma di equità sociale nonché una misura di sicurezza ambientale e alimentare. In un contesto di cambiamento climatico, lo sfruttamento senza freni del terreno può portare a conseguenze pericolose per il destino di molti popoli – se si pensa che la desertificazione è strettamente connessa alla mancanza di cibo e dunque alla denutrizione. Nell’urgenza di azioni mirate necessarie per salvare il suolo e le foreste, le diete bilanciate fanno da perno e in questo sistema di connessioni la coltivazione e il consumo dei legumi rappresentano un punto di partenza non trascurabile.

Ceci

Let it Bean! è un’iniziativa della rete Slow Beans e Slow Food in collaborazione con Meatless Monday e  il Centre for Livable Future della Johns’ Hopkins University negli Stati Uniti (che ha condotto studi sui benefici nutrizionali e ambientali dei legumi), nata in occasione di Terra Madre 2020.

L’obiettivo principale dell’iniziativa è quello di promuovere il consumo di legumi come alimento rispettoso del clima attraverso la collaborazione con le municipalità.

Nello specifico la campagna vuole:

  • Coinvolgere le municipalità nella promozione di un’alimentazione più sostenibile e rispettosa del clima attraverso il supporto ai produttori di legumi.
  • Aumentare la conoscenza del pubblico generico in merito ai legumi, alle loro proprietà e alle possibili ricette, grazie alla collaborazione con produttori e cuochi.
  • Far conoscere e potenziare la rete Slow Beans in tutto il mondo insieme all’iniziativa Meatless Monday

 

 

OLIO EVO 

Le evidenze scientifiche dimostrano che alcuni fattori come l’alimentazione mediterranea biologica, buone pratiche in agricoltura, la scelta di cibi naturali, le modalità di preparazione e di cottura dei cibi, l’assunzione di grassi prevalentemente di origine vegetale, come l’olio extravergine di oliva, alcuni stili di vita e in particolare la non sedentarietà, influenzano non solo il nostro peso, il peso dei nostri figli, il nostro benessere e la nostra salute ma apportano un miglioramento della qualità della vita in termini di riduzione delle malattie croniche metaboliche e in termini di prevenzione per quanto riguarda lo sviluppo dei tumori.

Pane ed olio: etichette narranti, prodotti identitari, la nostra memoria collettiva, insieme al vino e all’agricoltura contadina simboli della cultura del mediterraneo. Sono elementi fonda- mentali per la salute, i pilastri della dieta mediterranea, le materie prime di uno stile alimentare e di vita che recupera il passato per anticipare il futuro. In Calabria si stanno diffondendo nel mondo dell’olio e del vino prodotti di maggior carattere, sempre più legati al territorio, grazie a olivocoltori e vignaioli che pongono particolare attenzione ala tutela del paesaggio rispettano la terra e fanno un uso crescente delle materie prime autoctone e identitarie. Spetta a noi tutti il compito di riannodare e recuperare quella filiera non solo agroalimentare ma anche umana, economica, sociale, culturale, spezzata in nome di un’idea di crescita, di sviluppo, falli- mentare, oltre che estranea alla vocazione dei nostri territori. Bisogna aumentare i saperi per riscoprire i sapori. Saperi che vogliono dare un messaggio chiaro, toccando anche la sensorialità e non solo la ragione, facendo riscoprire i sapori del sano e riconoscere i prodotti del territorio. Sapori e prodotti a filiera corta ma che vengono da lontano, dalla fatica dei nostri antenati, dalla loro sapienza, intelligenza, lungimiranza.

L’ulivo, insieme alla vite e al grano, fa parte della storia dell’uomo e del mediterraneo; simbolo di pace, albero sempreverde di lunga vita, l’ulivo è uno degli elementi che più caratterizzano il paesaggio agrario calabrese. Gli ulivi calabresi sono dei musei a cielo aperto, autentiche opere d’arte pronte a stupire, memorabili e pieni di riferimento di ogni tipo, dalla storia alla natura, dalla bellezza al gusto. L’ulivo rimanda all’avventura dell’olio da cui inizia il viaggio del cibo più italiano che c’è, un simbolo di origini, territorio, qualità, bontà e salute. ll mio osservatorio è privilegiato non solo per il valore salutistico e nutrizionale riconosciuto all’olio dalla medicina, ma anche perché mio padre era un frantoiano, un “trappitaru” e mio figlio Francesco, collante tra generazioni, ha una grande passione per l’olio.

Scrivere di olio è davvero un momento emozionante, “è presenza di persone, luoghi, emozioni, emozioni che tornano a trovarti” e ricostituisce un attaccamento alla terra, alle mie radici, alle origini, stimolando sensi e ricordi, sono i ricordi della famiglia e della memoria che rivivono.  I ricordi mi trascinano ai sapori del sano, ai sapori e alla bontà dell’oro verde. La culura dell’olio è un patrimonio storico e ambientale da colti- vare ogni giorno, custodire con cura e saper trasmettere ai giovani per mantenere un rapporto armonico tra uomo, paesaggio e salute. Mi auguro che la nostra scelta dell’olio sia orientata dalla conoscenza e dalla consapevolezza e non dal marketing, dalla legislazione e dalla burocrazia che ci spingono verso l’olio commerciale.

IL NOSTRO OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA

L’olio extra vergine calabrese, ha una tradizione antichissima, la paternità colturale dell’olivo in Europa spetta proprio alla Calabria come dimostrano anche gli ulivi millenari risalenti all’età della Magna Grecia. La coltivazione dell’olivo viene introdotta in Italia intorno al I millennio a.c. da Fenici e Greci, probabilmente a partire dalle colonie greche della Calabria. La Calabria è stata per tanto tempo il bacino dell’olio lampante (acidità superiore al 2%). Bassa qualità, buono per la rettificazione, o nell’ipotesi migliore, per qualche taglio. La nostra regione veniva identificata soltanto come produttrice di grandi quantità di prodotto a discapito della qualità. Negli ultimi anni molto è cambiato e ci siamo avviati, grazie ad alcuni virtuosi produttori locali, in molti casi donne, verso un rinascimento dell’olio con prodotti sostenibili e di alta qualità.

È ovvio che bisogna preferire l’olio extravergine d’oliva rispetto ad altri tipi di condimenti ed è altrettanto evidente che chi decide di usare l’olio locale avrà senza dubbio un prodotto di qualità superiore rispetto a prodotti che pro- vengono dalla grande distribuzione. L’olio extravergine di oliva va utilizzato anche per friggere poiché, avendo meno polinsaturi degli oli di semi, si altera meno con le alte temperature sopportando bene il calore della padella. Le caratteristiche dell’olio: aroma, colore e sapore, si differenziano secondo la varietà, la zona di produzione, il raccolto, (che non deve danneggiare le olive e la vegetazione) ed infine per la modalità di produzione. Un prodotto di qualità deve con- tenere un alto contenuto di acido oleico, polifenoli e vita- mina E, una bassa acidità libera con una bassa concentrazione di perossidi.

UN PO’ DI CHIAREZZA SULL’OLIO EVO

Quanti sanno cos’è un extravergine? Extravergine è la classificazione merceologica dell’olio ottenuto dalle olive mediante processi meccanici e che rispetta alcuni parametri analitici tra cui l’acidità libera espressa in acido oleico che non deve superare gli 0,8 grammi per 100 gr di olio. Il Cultivar è il termine riferito alle diverse varietà di olivi e dei loro frutti. Un olio extra vergine d’oliva che costa meno di 8/10 Euro al litro non può garantire standard di qualità ele- vati, tutto ciò che è buono ha un prezzo, meglio diffidare dai prezzi bassi, ma siamo disposti a spendere di più per l’olio della macchina. Il prezzo 3-5 euro dovrebbe insospettirci. I conti non tornano tra consumi interni ed esportazioni non riusciamo a soddisfare i nostri consumi di extravergine cosa finisce nelle bottiglie? L’olio dell’oliva è al primo posto in Europa degli alimenti a più alto rischio di frode.

C’è senz’altro scarsa educazione sull’olio: per esempio quanti sanno che una bottiglia che in etichetta reca scritto “olio di oliva” contiene un misto (in quantità non dichiarate) di oli di oliva raffinati o oli di oliva vergini? Un olio di oliva raffinato è un olio che in origine presenta difetti tali per cui non può essere dichiarato commestibile dalla legge, quindi dovrà subire dei trattamenti chimico/fisici per farlo tornare tale e commerciabile. Se fosse chiaro in etichetta chissà quanto se ne venderebbe ancora? Una truffa frequente è quella di utilizzare un olio di semi colorato con la clorofilla e insaporito con il betacarotene, in altri casi si aggiunge olio di semi di girasole geneticamente modificato per ottenere una maggior somiglianza con l’olio di oliva. Tra le truffe più frequenti vi è la contraffazione mediante l’utilizzo di olio di sansa, olio di palma trifrazionato e l’olio di nocciola proveniente dalla Turchia. In altri casi oli difettosi, i lampanti, vengono miscelati con oli migliori o vengono fatti passare in sottovuoto a temperatura modesta per poi essere deodorati attraverso lavaggi chimici. Come difenderci? Informandoci sulla provenienza dell’olio, andando in fran- toio o rivolgendosi ad aziende di provata trasparenza. Il problema della tracciabilità è prioritario se, come rileva Coldiretti, In quattro bottiglie di olio extravergine su cinque in vendita in Italia è praticamente illeggibile la provenienza delle olive impiegate, nonostante sia obbligatorio indicarla per legge in etichetta.

Le indicazioni obbligatorie, come l’origine del prodotto e le informazioni nutrizionali in etichetta, non aiutano il consumatore a identificare differenze qualitative, per le quali è invece necessario fare affidamento al gradimento organolettico e sensoriale che possono orientare l’acquirente verso un prodotto a scapito di un altro. Il più delle volte sono parametri difficili da interpretare. La scelta da parte dell’azienda di dare informazioni attestano un impegno nel voler man- tenere costanti le caratteristiche, rispettando alcuni valori qualitativi.

Tra queste diciture importanti, compare l’acidità in percentuale, accompagnata da altri parametri come il numero dei perossidi (che esprime l’eventuale grado di irrancidimento dell’olio), il tenore in cere e gli indici spettrofotometrici. Generalmente la composizione ideale per un prodotto armonico è di 69-70% di acido oleico (monoinsaturi) e 8-9% di acido linoleico (polinsaturi), ma come detto ci può essere l’eccezione di alcune cultivar e/o provenienze particolari. Per potere scrivere in etichetta “prima spremitura a freddo” l’azienda o il frantoiano deve fornire una dichiarazione che indica essere stata mantenuta la temperatura massima di 27° durante la lavorazione delle olive in frantoio e i mezzi tecnologici che garantiscono la veridicità delle dichiarazioni, altrimenti è frode. Sono da considerare ingannevoli, le dizioni “novello”, “olio di frantoio”, “bassa acidità” e simili, o nomi di fantasia o ragioni sociali spesso inventate per l’occasione, che approfittando di una legislazione del tutto inadeguata cercano di accreditare origini del prodotto quasi mai corrispondenti alla realtà.

Buona parte dell’extravergine deriva da miscele, spesso l’extravergine è un blend di oli italiani, comunitari ed extra- comunitari, tra i quali soprattutto gli spagnoli, data la note- vole quantità di produzione che contraddistingue la Spagna. I signori dell’olio non spremano più ma importano deodorano, profumano, manipolano. L’olivicoltore che, dopo aver coltivato gli oliveti, raccolte le olive che trasporta al frantoio entro poche ore per ottenere l’olio non ha nulla in comune con l’industria che compra le olive o l’olio in diversi Paesi dopo che queste sono state ammassate per giorni o hanno viaggiato stivate nelle navi per essere molite in stabilimenti industriali.

PERCHÉ BIOLOGICO?

L’olio biologico di Calabria narra il territorio, grazie alle sue caratteristiche organolettiche esprime sapori e profumi del mediterraneo; profumi di pomodoro, basilico e menta, mandorla e sentori erbacei, sapori in cui il piccante si armo- nizza ad un amaro piacevole dando vita ad un fruttato fresco. Un buon olio extravergine di oliva, si ricava, a giusta matu- razione delle olive, da una raccolta veloce, attenta e manuale,

facendo passare meno tempo possibile dalla raccolta alla frangitura. La molitura viene eseguita nel giro di poche ore dalla raccolta controllando la temperatura di lavorazione così da assicurare il mantenimento di tutte le caratteristiche organolettiche.

Per evitare di avvelenarci con piccole dosi quotidiane di pesticidi dobbiamo prediligere oli da agricoltura biologica, che garantiscono assenza di sostanze chimiche dannose, as- senza di molecole di sintesi, enzimi, erbicidi, concimi chi- mici, solventi. È fondamentale, quindi, scegliere olio d’oliva biologico perché a minacciare la qualità dell’olio extravergine d’oliva è soprattutto l’utilizzo sconsiderato di pesticidi. Ciò avviene nell’agricoltura convenzionale ma non in agricoltura biologica, che non utilizza sostanze chimiche per la coltivazione degli ulivi e si attiene a regole ben precise nella produzione dell’olio. L’olio bio rispetta la terra ed è di qualità superiore. La biodiversità e l’ecosistema vanno tutelati, l’olivo come tutte le piante s’indebolisce soprattutto quando non riesce più a nutrirsi vivendo in terreni sterili e inquinati da pratiche agronomiche non rispettose dell’ambiente.

IL FRUTTATO E GLI ACCOSTAMENTI

Dell’olio vanno osservati la fluidità e all’olfatto si devono percepire note che vanno dall’oliva all’erba, e al gusto devono deve esserci l’amarognolo, il piccante e il fruttato, e non il rancido o la morchia, difetti che possono essere presenti ad esempio se trascorre troppo tempo tra la raccolta e la spremitura, ma non solo.

Leggero, medio, intenso. Sono queste le tre categorie in cui classificare il fruttato di un olio extravergine di oliva, ovvero l’insieme delle caratteristiche organolettiche percepibile al naso. Sentori erbacei, vegetali, balsamici, di frutta fresca e secca: le sfumature che un olio di qualità può assumere sono molteplici., Gli oli debbono essere selezionati e analizzati per valutarne l’acidità libera, il numero di perossidi e la valutazione sensoriale (panel test). L’elevato contenuto di acidi grassi monoinsaturi rappresenta l’elemento distintivo dell’olio extravergine rispetto ad altri grassi di origine vegetale. Da determinare poi il profilo, ossia la composizione qualitativa e quantitativa dei composti volatili, responsabili dell’aroma, e quello delle sostanze polifenoliche, responsabili dell’amaro e della sensazione di piccante. È bene conoscere le caratteristiche sensoriali dell’olio EVO per un buon accostamento, infatti, ogni tipo di olio è diverso e differisce dagli altri per qualità, gusto, colore, odore e intensità, caratteri influenzati dalla terra d’origine, dal clima, dall’annata e dalla varietà di olive. In cucina la scelta dell’olio giusto da abbinare ad ogni piatto si rivela perciò importante ma non facile: in- fatti, mentre in alcune ricette l’olio deve arricchire e impre- ziosire l’alimento evitando di stravolgerne il gusto, in altre è decisivo nell’esaltare, con il giusto equilibrio, i sapori del ci- boche devono essere percepiti al palato.

OLIO EVO E SALUTE

L’olio extravergine d’oliva ha una caratteristica peculiare che non c’è nell’olio d’oliva non evo: la ricchezza di alcuni polifenoli. I polifenoli conferiscono all’olio stabilità, qualità nutrizionali e salutistiche oltre che peculiarità sensoriali. Es- sendo termolabili ne sono presenti maggiormente negli oli estratti a freddo. La loro presenza è avvertita da un gusto amaro, piccante e dal fruttato intenso, sono importanti per- ché “contribuiscono alla protezione dei lipidi ematici dallo stress ossidativo”; rendendo l’extra vergine particolarmente di pregio, sul piano salutistico, perché capace di esercitare effetti preventivi nei confronti delle malattie cardiovascolari e dei tumori.

I polifenoli presenti nell’olio extra vergine di oliva sono macromolecole contenenti nuclei fenolici legati a radicali di varia natura, e sono: oleuropeina (principio amaro) idrossitirosolo (da decomposizione del precedente); luteolina, ac. elenoico, flavoni, fenolici. L’olio extravergine d’oliva ricco in polifenoli giova alla salute non solo da un punto di vista me- tabolico e sulla prevenzione dell’aterosclerosi e del cancro. L’Evo svolge una azione antiossidante che combatte i radicali liberi, sostanze che sono capaci di danneggiare le proteine, i grassi e il nostro DNA. I polifenoli hanno azione antiin- fiammatoria apportando notevoli benefici poiché gran parte delle malattie croniche è favorita da uno stato infiammatorio cronico. Quando i valori delle sostanze infiammatorie nel sangue sono alti aumenta il rischio di infarto, di cancro, di malattie neurodegenerative. L’oleocantale, polifenolo antinfiammatorio presente solo nell’extravergine di oliva, è una risorsa preziosa, che viene persa con la raffinazione dell’olio.

L’olio di oliva extravergine è il grasso vegetale che tiene sotto controllo le concentrazioni sieriche delle lipoproteine a bassa densità ricche di colesterolo LDL che permangono nel sangue e si depositano sulle pareti delle arterie. Un’assunzione regolare di olio extravergine di oliva riduce il colesterolo cosiddetto “cattivo” aumentando quello buono che aiuta a tenere pulite le arterie dalle sostanze che tendono ad ostruirle. Grazie alle sue innumerevoli proprietà benefiche l’olio difende e protegge l’intero sistema cardiocircolatorio contrastando patologie ad esso collegate. Il sistema gastrointestinale femminile è soggetto spesso a disturbi come ad esempio la stitichezza, fenomeno che colpisce la maggior parte delle donne sin dalla giovane età. L’olio extravergine di oliva crudo, aiuta a regolarizzare l’intestino e a contrastare il colon irritabile.

Nell’olio extra vergine prodotto solo ed esclusivamente tramite la spremitura delle olive, sono presenti degli agenti fitochimici – che altrimenti si perderebbero durante il processo di raffinazione – analizzati dai ricercatori per comprenderne  l’effetto sul cancro della mammella.

L’indagine è stata condotta in laboratorio, tramite l`analisi del comportamento di un gruppo di cellule affette dalla patologia tumorale in risposta ad alcune dosi di olio extra vergine di oliva. Dai risultati è emerso che gli elementi fitochimici: polifenoli, lignani e secoiridoidi, erano in grado di inibire in modo efficace il gene Her2, responsabile di alcuni tipi di cancro al seno.

La concentrazione di polifenoli nell’olio d’oliva dipende dall’interazione tra differenti fattori, quali: l’area di coltivazione; la cultivar (varietà); il clima; il processo di estrazione; il grado di maturazione delle olive al momento della raccolta, le modalità di produzione. Solitamente, più matura è l’oliva, più basso è il contenuto di polifenoli. Tuttavia questa regola non è sempre valida. Nei climi più caldi infatti, le olive maturano più velocemente, ma producono oli più ricchi di polifenoli. Ecco perchè le olive italiane, in particolar modo quelle del sud Italia, sono particolarmente ricche di questi preziosi composti.

L’olio extravergine d’oliva è un alimento completo, che vanta virtù specifiche tali da andare oltre al “classico nutriente”. Da qui di evince come il giusto approccio con una materia prima così straordinaria non possa essere lasciato al caso, a frodi o sofisticazioni.

Un uovo al giorno per la salute del cuore: gli interessanti risultati di uno studio internazionale

La responsabilità delle uova nell’insorgenza delle malattie cardiovascolari è stata da tempo più che ridimensionata: se il consumo non è eccessivo, gli effetti non sono negativi ma, al contrario, possono essere di segno positivo, per quanto riguarda la salute dei vasi sanguigni e del cuore. Le uova contengono infatti numerosi nutrienti preziosi, che possono aiutare e tenere sotto controllo l’equilibrio dei grassi nel sangue. La considerazione è cambiata nel tempo, via via che si accumulavano evidenze favorevoli, ma ha avuto una svolta decisiva nel 2018, quando uno studio cinese, pubblicato su Heart e condotto su mezzo milione di persone, ha dimostrato che chi mangiava circa un uovo al giorno aveva un rischio di sviluppare una malattia cardiovascolare inferiore in media del 10% rispetto a chi non ne mangiava se non saltuariamente, un rischio di morte per queste patologie inferiore del 18% e di ictus emorragico quasi del 30%.

Ora lo stesso gruppo di esperti che ha effettuato lo studio ha approfondito il tema, in collaborazione con i colleghi dell’Università di Oxford, facendo un passo ulteriore, cioè caratterizzando l’andamento di decine di metaboliti in base all’assunzione di uova. I ricercatori, in questo caso, tra i 500mila partecipanti alla ricerca originale, hanno selezionato circa 3.400 persone che hanno avuto una diagnosi di malattia cardiovascolare nei cinque anni della durata dello studio precedente e circa 1.400 controlli. Quindi hanno chiesto loro di indicare le proprie abitudini alimentari degli ultimi 12 mesi su 11 tipi di alimenti, con particolare attenzione al consumo di uova. Quindi hanno spedito tutto a Oxford affinché fossero misurati, in tutti, ben 225 metaboliti di vario tipo, spettroscopia NMR (risonanza magnetica nucleare). Tra i vari marcatori, 24 sono risultati essere strettamente associati al consumo di uova e 14 collegati alla presenza di una patologia cardiovascolare.

Come descritto su ELife, incrociando tutti i dati, il risultato è stato chiaro: chi aveva avuto più patologie cardiovascolari aveva anche consumato meno regolarmente uova, mentre chi in media ne aveva mangiato poco meno di uno al giorno erano stato più protetto. Tra i marcatori più significativi è emersa l’apolipoproteina A1, componente fondamentale del cosiddetto colesterolo buono (HDL), che aumenta in modo lineare con il consumo di uova, e che spiegherebbe almeno in parte la protezione. Resta comunque da approfondire il ruolo anche degli altri nutrienti presenti. Le linee guida cinesi indicano un uovo al giorno come quantità ideale, per contribuire a prevenire le malattie cardiovascolari, ma i dati mostrano che la popolazione è piuttosto lontana da questo quantitativo, anche se il consumo è in crescita.

Raffaele Leuzzi