La diagnosi precoce non è prevenzione!
Diagnosi precoce significa individuare prima il tumore.
La mammografia non previene dal tumore, permette di diagnosticarlo in anticipo, nella convinzione che così facendo le cure siano meno invasive e la mortalità sia ridotta. Occorre quindi un chiarimento linguistico e concettuale la diagnosi precoce mediante esami clinico-strumentali, mammografia o ecografia non è prevenzione è diagnosi precoce ed in medicina viene definita prevenzione secondaria. E’ una delle fonti di maggiore confusione per le donne che devono decidere se e come aderire a campagne di screening: tante donne pensano che sottoponendosi a questo test eviteranno di ammalarsi, mentre il test serve soltanto a diagnosticare precocemente l’eventuale malattia.Se un esame è proposto a tutte le persone in una certa fascia di età e con particolari caratteristiche, si dice che è un esame di screening, cioè non basato sulle caratteristiche del singolo individuo o sulla sua storia familiare, ma su elementi condivisi dall’intero gruppo (per esempio, persone dello stesso genere e di una certa fascia di età). Uno degli elementi importanti perché un test possa diventare uno screening è che incida sulla mortalità per la malattia che diagnostica: non basta fare più diagnosi, bisogna che queste diagnosi anticipate permettano di salvare vite umane cambiando il naturale decorso della malattia.

La mammografia può essere usata per lo screening ed è quindi raccomandata e offerta gratuitamente in Italia a tutte le donne nella fascia di età tra i 50 e i 69 anni. Alcune Regioni, su indicazione del Ministero della Salute, la stanno estendendo alle donne tra i 45 e 49 anni con intervallo annuale e alle tra i 70 e 74 anni con intervallo biennale) Ciò non significa, però, che non vi siano donne che hanno bisogno di fare la mammografia anche in età più giovanile, per esempio se hanno familiarità per il cancro al seno oppure perché hanno una mammella con alcune caratteristiche particolari che, sulla base degli studi condotti finora, possono favorire la comparsa di un tumore. Nel loro caso non si parla però di screening, perché non rientrano nella categoria generale, ma di esami diagnostici prescritti sulla base di caratteristiche individuali.

Da più di 20 anni la ricerca sta tentando di identificare i gruppi di donne a più alto rischio, quelle che con più probabilità svilupperanno il tumore, se non interverranno studi conclusivi, poiché una donna su otto si ammalerà di tumore nel corso della vita tutte le donne occidentali, sono da considerarci ad alto rischio. Il rischio è probabilità, è statistica, è una misura relativa è come tale ha una rilevanza indiretta e non causale sullo sviluppo della malattia.
Le donne corrono il rischio di essere ammalate di “rischio di ammalarsi” con stati psico-emotivi di paure e disagio. L’analisi genica molecolare è un test genetico che analizza regioni specifiche del DNA genomico o di Rna o di prodotti genici estratti estratti da tessuti e da linfociti allo scopo di identificare anomalie presenti nel patrimonio genetico responsabili di patologie ereditarie o di predisposizione a patologie tumorali quando la storia familiare el l’anamnesi della paziente siano a rischio per un tumore eredo-familiare. Si calcola che che il 5-10% dei tumori della mammella e dell’ovaio siano eredo-familiari perchè correlati ad alterazioni genetiche che predispongono all’insorgenza della malattia. I soggetti portatori di alterazioni genetiche hanno una probabilità su due di trasmettere tale alterazione ai figli indipendentemente dal sesso. Una donna portatrice di mutazione genica in uno dei due geni BRCA1 o BRCA2 ha una probabilità del 40-60% di sviluppare un carcinoma mammario nel corso della vita. Nel caso di mutazione genica del gene BRCA2 il rischio diventa alto anche per i soggetti di sesso maschile.Il rischio di sviluppare il tumore dell’ovaio è del 30-40% se vi è una mutazione nel gene BRCA1 e del 20-25% se c’è una mutazione nel gene BRCA2. La genetica ha fatto notevoli passi in avanti nei test diagnostici e predittivi. La donna quindi che eredita una mutazione in due geni Brca1 nel cromosoma 17 e Brca2 nel cromosoma 13 ha una possibilità cinque volte superiore di sviluppare il tumore mammario rispetto alla donna che non ha questa mutazione. Il rischio è insito nella condizione umana, non potrà sempre essere controllato e non si può curare quello che si può solo predire. I test genetici che danno risultati probabilistici in molti casi aumentano l’angoscia riguardo alla malattia che può presentarsi dopo anni o non presentarsi affatto. Il rapporto medico-paziente già critico rischia di essere portato all’estremo quando si tratta di comunicare diagnosi di modificazione genica con un rischio alto di una patologia tumorale che potrebbe svilupparsi.
Cosa proporre ad una donna con mutazione genica? stretta sorveglianza, mastectomia profilattica o farmacoprevenzione?
La donna ed il medico sono investiti da responsabilità che riguardano non solo la portatrice di mutazione ma anche il nucleo famigliare in particolare i figli . E’ giusto ricercare nelle figlie il rischio per patologie tumorali che forse si svilupperanno in età adulta? Anche oggi l’area di ricerca che riguarda il counselling genetico è da considerarsi un’area di ricerca in larga parte sperimentale che ha vincoli di tipo etico e psicologico. E’ quindi giusto che qualsiasi iniziativa di studio sia limitata a strutture pubbliche ed a donne autoreferenti cui viene richiesto un consenso dopo una dettagliata analisi dei rischi e dei benefici, considerando lo stato psicoemotivo della donna, l’età, le possibili dinamiche famigliari e la progettualità di vita. Le donne devono sentirsi protette e seguite dalla struttura che propone il test genetico. Spesso le mode e gli interessi economici fanno perdere di vista le linee di ricerca più promettenti sulla prevenzione e sull’impatto a livelli di sanità pubblica, non valorizzando i veri determinanti del tumore al seno .
Le diete di tipo occidentale, che sono ricche di carne rossa e lavorata, zucchero e cereali raffinati e basse di verdure e legumi, hanno dimostrato di indurre infiammazione sistemica e intestinale.
I risultati di numerosi studi forniscono prove a sostegno del ruolo del microbiota intestinale nella mediazione del legame patogeno tra dieta e cancro del colon-retto”, scrivono gli autori.
Gli UPF, cibi ultratarsformati, sono altamente manipolati e ricchi di ingredienti aggiunti, tra cui zucchero, grassi e sale, e sono a basso contenuto di proteine e fibre. Includono bevande analcoliche, patatine, cioccolato, caramelle, gelati, cereali per la colazione zuccherati, zuppe confezionate, crocchette di pollo, hot dog, patatine fritte e molti altri.
Le diete scadenti sono responsabili di più decessi di qualsiasi altro fattore di rischio a livello globale e sono la principale causa di obesità e malattie non trasmissibili.
la lavorazione degli alimenti e la qualità nutrizionale degli alimenti coprono dimensioni diverse ma complementari, che dovrebbero essere considerate entrambe quando si analizza la relazione dieta-malattia. Ciò è in linea con il presupposto che il potenziale sanitario di un alimento non sia esclusivamente associato alla sua composizione nutrizionale.21
Dal punto di vista della salute pubblica, questo studio rafforza l’opportunità di riformulare le linee guida dietetiche in tutto il mondo, prestando maggiore attenzione al grado di lavorazione degli alimenti insieme alle raccomandazioni basate sui nutrienti. Riconosciamo che sono stati compiuti alcuni progressi in questo campo; l’ultima versione delle linee guida dietetiche per migliorare la salute cardiovascolare rilasciata dall’American Heart Association raccomanda di scegliere alimenti minimamente trasformati invece di alimenti ultra-elaborati in conformità con quanto è già stato fatto in alcuni paesi.
• Il Nutri-Score è un sistema interpretativo di etichettatura front-of-pack che classifica la qualità nutrizionale degli alimenti ed è candidato per consentire un’etichettatura nutrizionale uniforme front-of-pack a livello UE
• La classificazione NOVA invece valuta gli alimenti in base al grado di lavorazione piuttosto che al loro contenuto di nutrienti
• Entrambi i sistemi sono stati segnalati separatamente come associati a scarsi risultati di salute nelle coorti di popolazione in tutto il mondo, ma il loro impatto congiunto sulla salute non è stato valutato in grandi coorti
Cosa aggiunge uno studio italiano:
• In una grande coorte di popolazione italiana, il Nutri-Score e la classificazione NOVA erano associati in modo indipendente a tutte le cause e alla mortalità cardiovascolare
• Parte del rischio di mortalità in eccesso associato a una dieta povera di nutrienti, come riflesso dall’aumento dei valori del Nutri-Score, è stato significativamente spiegato da un più alto grado di lavorazione degli alimenti
• L’assunzione di cibo ultra-elaborato, al contrario, è rimasta associata alla mortalità anche dopo che la scarsa qualità nutrizionale della dieta è stata rappresentata.
“Negli Stati Uniti, 4 Cancri su 10 potrebbero essere prevenuti”
Pam Harrison
“I nostri risultati sottolineano la continua necessità di una diffusa implementazione di misure preventive note nel paese per ridurre la morbilità e la mortalità prematura da tumori associati a fattori di rischio potenzialmente modificabili”,
In considerazione del nesso causale tra alimentazione e tumore qualcosa sta cambiando sulla riduzione dei rischi modificabili: stili di vita, obesità, sovrappeso, insulino-resistenza, alimentazione errata. Andrebbe superata l’idea dominante che considera impossibile la prevenzione del tumore senza il supporto di farmaci, farmaci usati a scopo preventivo ma costosi e gravati da effetti collaterali. Le donne e le loro Associazioni pretendono che gli sforzi della ricerca debbano essere canalizzati e concentrati sulla prevenzione primaria. Ribadendo come campagne di sensibilizzazione per mutare abitudini di vita errate ed iniziative che valorizzino e promuovano la qualità del cibo potrebbero avere ricadute positive, per la salute e per la prevenzione, di portata superiore a quelle ipotizzabili con interventi medicalizzati, costosi e con conseguenze a lunga distanza non ben valutabili.
Le Associazioni femminili vogliono mettere a disposizione conoscenze diffondere esperienze per una società più solidale, più umana, più colta e con pari dignità per la donna che superi le non più tollerabili disuguaglianze nella salute e nella sanità.
• Prevenzione primaria: mira a far sì che i tumori non insorgano. Il suo scopo, è ridurre l’incidenza del cancro tenendo sotto controllo le cause ed i fattori di rischio modificabili. Una corretta strategia di prevenzione primaria si basa, quindi, sull’identificazione dei fattori di rischio, sulla valutazione di quanto l’intera popolazione o il singolo individuo siano esposti a tali fattori e sulla riduzione della loro diffusione nella popolazione.
• Prevenzione secondaria: è la diagnosi precoce interviene su soggetti già ammalati, benché in uno stadio iniziale quando i sintomi non si sono ancora manifestati. Non necessariamente questi soggetti hanno già sviluppato il cancro: la loro lesione potrebbe essere di tipo precanceroso, in particolare i tumori in situ, non è cancro invasivo, ma potrebbe diventarlo. Si tenga conto che lo sviluppo del cancro spesso interessa un arco temporale anche di decine di anni. Mediante uno screening personalizzato, la diagnosi con tomosintesi, ecografia e CEM, la prevenzione secondaria mira ad ottenere la guarigione limitando la progressione del tumore.
• Prevenzione terziaria: questo approccio viene messo in atto dopo la manifestazione della patologia. Consiste in un accurato controllo clinico-terapeutico che ha l’obiettivo di evitare o comunque limitare la comparsa di complicazioni tardive e di eventuali recidive. Nell’ambito della prevenzione terziaria rientrano anche la gestione dei deficit e delle disabilità funzionali che insorgono in conseguenza di uno stato patologico o disfunzionale. In questi casi la prevenzione si realizza attraverso misure riabilitative e assistenziali volte al reinserimento familiare, sociale e lavorativo del malato e al miglioramento della sua qualità di vita.
• stili di vita:
• fumo
• sole e raggi ultravioletti
• alcol in eccesso
• Tipo di alimentazione
• sovrappeso e obesità
• sedentarietà
• fattori ambientali:
• inquinamento atmosferico
• agenti chimici (es. benzene, diossine)
• sostanze presenti in natura (es. amianto, arsenico, berillio, cadmio, cromo, piombo)
• agenti fisici (radiazioni)
• agenti infettivi (es. virus Epatite B e C oHPV. Il cancro, comunque, non è una malattia contagiosa, né è provocata direttamente da virus o batteri.
• Stile alimentare mediterraneo:
• Settimanalmente sono previste 5- porzioni di pesce (meglio se azzurro e ricco di omega3), 7 porzioni di frutta e verdura 3 porzioni di carni bianche e pollame da allevamenti non intendivi, 3-4 porzioni di olive, legumi e noci, 3 porzioni di patate, 3 di uova e 3 dolci. La carne rossa, da allevamenti non intensivi, è concessa 4 volte al mese.
La prevenzione si configura come una questione di primaria importanza: si possono riscontrare a questo proposito due tipologie differenti di prevenzione per il cancro al seno (primaria e secondaria). La prevenzione primaria, ha come obiettivo quello di prevenire l’insorgere della patologia e consiste nell’adozione di uno stile di vita sano, un’adeguata alimentazione (pochi grassi e molti vegetali), attività fisica regolare (almeno tre volte ogni settimana con sessioni di 60 minuti) e l’astensione dal fumo. La prevenzione primaria dovrebbe ridurre l’incidenza dei tumori intervenendo sulla rimozione delle cause determinanti il cancro. Numerosi sono i fattori associati ad un maggiore rischio di sviluppare un tumore, la maggior parte di questi non sono modificabili. Il tumore comunque è un processo che necessita dell’interazione di più fattori. La maggior parte dei fattori conosciuti che modulano il rischio di tumore della mammella (familiarità, aspetti legati alla storia riproduttiva e personale) appaiono del tutto o sostanzialmente non modificabili. Sarebbe opportuno impegnarsi promuovendo la prevenzione primaria, quella che però non attira i grandi capitali delle multinazionali della sanità. Attualmente alla prevenzione primaria. vi sono dedicate solo le briciole. L’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo e il cibo che mangiamo sono tutti abbondantemente ricchi di sostanze tossiche e addirittura cancerogene: non esiste più un cibo sano, ma tra tutti i cibi, a causa di quello che in linguaggio tecnico si chiama “bioaccumulo”, i prodotti animali (latte, carne e derivati) sono sicuramente i meno sostenibili ed i peggiori per la loro capacità di essere promotori delle patologie metaboliche e del cancro. La ricerca epidemiologica ha identificato alcuni fattori legati all’alimentazione e allo stile di vita che appaiono potenzialmente modificabili rendendo quindi possibili interventi di prevenzione primaria. L’alimentazione errata, la sindrome metabolica e la vita sedentaria hanno un nesso causale con l’incidenza del tumore al seno. L’alimentazione può influenzare l’insorgenza del tumore modificando l’ambiente interno dell’organismo che promuove e attiva sostanze od ormoni che favoriscono il tumore e la sua progressione. C’è da ritenere che il cibo favorisca l’insorgenza di alcuni tumori sia attraverso l’uso di conservanti e l’introduzione dei cancerogeni come le amine eterocicliche che si formano nella cottura della carne, sia attraverso l’influenza della dieta nel modificare il quadro ormonale e il metabolismo degli estrogeni circolanti, del testosterone e dei fattori di crescita legati all’insulina (Igf-1).
Meccanismi con cui l’alimentazione può influenzare l’insorgenza dei tumori:
i vari processi industriali di produzione del cibo modificano le caratteristiche nutrizionali degli alimenti;
esposizione a cancerogeni presenti nei cibi o formatisi durante la cottura o nella conservazione degli alimenti;
capacità di fornire sostanze che favoriscono la formazione dei radicali liberi responsabili di danni cellulari (sostanze pro o anti-ossidanti) o al contrario forniscano sostanze che riparano i danni del DNA;
attivazione di meccanismi di morte cellulare programmata.
La diete e lo stile di vita possono influenzare ciascuna delle fasi successive che si verificano nel processo di carcinogenesi: iniziazione, promozione e progressione. Sebbene i fattori nutrizionali e i fattori legati alle abitudini quotidiane siano più o meno gli stessi, l’impatto di questi in ogni fase è diverso.
Gli agenti più coinvolti nella fase di carcinogenesi sono senza dubbio i composti nitrosi, nitriti e nitrati in particolare, ha spiegato. “Quelli presenti naturalmente negli alimenti non causano il cancro, perché biochimicamente non producono nitrosammine. Abbiamo un problema con i nitriti che vengono aggiunti, ad esempio, alle carni lavorate o alle salsicce; questi producono nitrosammine.
Idrocarburi aromatici policiclici
Ci sono due tipi particolarmente dannosi di alimenti trasformati: carne stagionata (che ha composti N-nitroso) e carne e pesce affumicati, che contengono idrocarburi policiclici aromatici, sostanze chimiche direttamente correlate a determinati metodi di cottura. “Sappiamo che gli idrocarburi policiclici aromatici si formano quando si cucinano alimenti di origine animale e anche vegetale, poiché è la pirolisi, sia di materiale organico che di lipidi e proteine, che genera queste sostanze”.
Gli idrocarburi policiclici aromatici di origine animale e vegetale sono stati confrontati quando crudi e dopo essere stati grigliati. “Gli autori hanno osservato che l’aumento degli idrocarburi policiclici aromatici era molto più significativo negli alimenti di origine animale. Allo stesso modo, hanno scoperto che tra le carni, il pollo è il più incline alla formazione di idrocarburi policiclici aromatici”.
Lo studio ha anche evidenziato che è possibile ridurre la formazione di queste sostanze utilizzando varie strategie. Una strategia è “marinare il cibo in una soluzione acida per più di un’ora, poiché attraverso questo, la formazione di questi idrocarburi è ridotta, così come i prodotti finali di glicazione avanzata, che sono proossidanti e proinfiammatori”. “Un’altra opzione è quella di condire la carne e il pesce prima di grigliarli (con pepe, paprika, aglio, cipolla, zenzero, curcuma, cumino, cannella, chiodi di garofano, finocchio, anice stellato), o cucinare a bassa temperatura.
Obiettivo: fermare l’infiammazione
Che cos’è la PTI?
Infiammazione normale e infiammazione protumorale (PTI)
L’infiammazione è la naturale risposta del sistema immunitario a infezioni e malattie3-5

- Se non viene controllata in modo adeguato, l’infiammazione può diventare nociva6
- Da oltre 150 anni i ricercatori studiano il collegamento tra infiammazione non controllata e tumori. La PTI è stata riconosciuta come una delle caratteristiche distintive del cancro7,8
- Evidenze preliminari indicano che la PTI è associata al carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC)9
Si ritiene che, attraverso i mediatori dell’infiammazione, la PTI contribuisca a:1,2
Favorire i processi oncogeni, promuovendo la proliferazione delle cellule tumorali e la progressione del tumore
Sopprimere la risposta immunitaria contro il tumore alterando il microambiente tumorale
Nella PTI sono coinvolti numerosi tipi di cellule e citochine che fungono da mediatori dell’infiammazione nel microambiente tumorale. Tra questi vi sono macrofagi, interleuchine e il fattore di necrosi tumorale alfa (TNF-α).1

Il microambiente tumorale10-12

A mano a mano che crescono, i tumori creano un proprio ecosistema, denominato “microambiente tumorale”. Tra le funzioni che svolge, tale microambiente aiuta il tumore a sopravvivere proteggendolo dal sistema immunitario, in parte grazie al reclutamento di cellule immunosoppressive come i linfociti T regolatori (Treg), i macrofagi e le cellule soppressorie di derivazione mieloide (MDSC) che inibiscono i linfociti T citotossici.
Il ruolo dell’IL-1ß
L’interleuchina-1 beta (IL-1ß) svolge un ruolo fondamentale nella PTI13
Evidenze preliminari indicano che l’IL-1ß favorisce la PTI attraverso l’attivazione dei processi tumorali e il reclutamento di cellule immunosoppressive.14-16
La segnalazione mediata dall’IL-1ß contribuisce alla crescita e alla progressione tumorale tramite l’attivazione di numerosi fattori di trascrizione, tra cui l’NF-kB (nuclear factor kappa-light-chain-enhancer of activated B cells).15,17
L’IL-1ß aiuta a inibire la risposta immunitaria contro il tumore attraverso il reclutamento di cellule immunosoppressive nel microambiente tumorale. L’infiltrazione di MDSC, Treg e macrofagi associati al tumore (TAM) contribuisce alla disattivazione dei linfociti T citotossici nel microambiente tumorale.16,18
Secondo dati preclinici l’IL-1ß, una citochina fondamentale nel microambiente tumorale, è uno dei fattori che innescano la PTI necessaria per la crescita, la sopravvivenza e la metastatizzazione dei tumori.9,15

Sulla base di evidenze preliminari, l’espressione dell’IL-1ß può essere elevata nel NSCLC ed essere correlata a una prognosi sfavorevole19-21
Una caratteristica distintiva del cancro
Da oltre 150 anni i ricercatori studiano il collegamento tra infiammazione non controllata e tumori. La PTI è stata riconosciuta come una delle caratteristiche distintive del cancro7,8

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“La carne cotta sulla griglia può contenere benzopirene, un idrocarburo che può causare una mutazione nel DNA, essendo un indicatore della carcinogenesi. Nel frattempo, le brassica sono ricche di sulforafano, coinvolte in una maggiore espressione di alcuni geni, tra cui quello che codifica per l’espressione della glutatione s-transferasi, favorendo così l’eliminazione del benzopirene”.
I fattori che possono agire come promotori e progressisti della carcinogenesi sono molti e diversi. Tra questi ci sono lo stress psicologico e la rottura circadiana (come diversi studi hanno dimostrato per quanto riguarda gli effetti del lavoro a turni), l’inattività fisica, l’obesità, l’iperglicemia, l’iperinsulinemia e l’aumento delle concentrazioni del fattore di crescita insulino-simile 1 (IGF-1)/proteina legante il fattore di crescita insulin
L’elemento comune o “filo guida” di tutti questi fattori è l’infiammazione, poiché conosciamo la risposta infiammatoria attiva da vari meccanismi, l’espressione genica coinvolta nell’apoptosi, l’aumento dell’angiogenesi, la proliferazione cellulare, ecc. “Come siamo stati in grado di verificare in uno studio condotto su questo argomento, tra le principali cause di infiammazione sistemica cronica, troviamo obesità, inattività fisica, interruzione circadiana, stress psicologico cronico, esposizione a vari xenobiotici o una dieta inadeguata”, ha detto Carrera. “Tutto questo può attivare varie vie proinfiammatorie, contribuendo alla carcinogenesi”.
Parallelamente alle prove sul ruolo dell’infiammazione nelle fasi di promozione e progressione del tumore, ci sono anche sempre più dati sugli elementi nutrizionali o dello stile di vita che possono prevenire o fermare questo effetto. “Uno di questi elementi si riferisce agli acidi grassi della famiglia omega-3 (EPA, DHA), che possono legarsi a un recettore transmembrana, inibendo l’attivazione delle proteine della chinasi”. “Questi acidi sono una soluzione, specialmente nei pazienti con infiammazione sistemica cronica di basso livello. Ci sono anche vari prodotti fitochimici presenti in alimenti come zenzero, tè verde, curcuma e broccoli e altre brassica che possono inibire la fosforilazione delle proteine della chinasi. Ma ciò che è veramente importante è identificare le cause dell’infiammazione cronica a basso livello in ciascuno dei pazienti e agire in conformità con questi. Questo è l’obiettivo chiave. Allo stesso modo, i cambiamenti nello stile di vita sono molto più rilevanti che pensare a nutrienti o sostanze concrete, poiché i rituali quotidiani determinano la nostra salute”, ha concluso.
Esercizio come terapia oncologica
Recenti studi hanno mostrato prove dell’importanza dell’esercizio fisico durante il trattamento del cancro e del suo potenziale ruolo nella modulazione del microambiente tumorale e della funzione immunitaria
“Il cancro è una malattia con una chiara componente metabolica e il microambiente tumorale determina in parte lo sviluppo e la malignità della malattia”, ha continuato. “In questo quadro, sappiamo che l’ipossia è uno dei principali fattori scatenanti dell’aggressione tumorale, portando a un circolo vizioso che incoraggia le mutazioni protumorali. Pertanto, è essenziale ridurre i livelli di ipossia nella lotta contro la malattia. L’obiettivo di qualsiasi terapia è quello di modulare il microambiente tumorale e combattere metabolicamente il tumore con l’obiettivo che i trattamenti siano molto più efficaci.
“In questo senso e secondo i dati degli studi preclinici, l’esercizio fisico può migliorare l’efficacia di queste terapie. Concretamente, ha dimostrato di avere la capacità di modulare l’ambiente tumorale, diminuendo l’ipossia e riducendo la biodisponibilità del lattato plasmatico, un metabolita presente in questo microambiente a livelli elevati. Questo effetto modulante si traduce in un miglioramento dell’efficacia della chemioterapia e di altri trattamenti oncologici”, ha aggiunto.
I risultati di uno degli studi più recenti su questo argomento, che ha dimostrato che l’esercizio fisico, in combinazione con la chemioterapia, riduce la progressione e il volume del tumore. I risultati posizionano l’esercizio come un importante elemento di ottimizzazione dei principali trattamenti che vengono applicati a questi pazienti. “Inoltre, gli unici studi condotti sull’uomo (in particolare, nel caso del cancro al pancreas) dimostrano che l’esercizio rimodella la struttura vascolare, anche quando si raccomanda (in piccole dosi) di essere condotto a casa del paziente”.
Per quanto riguarda il tipo di esercizio più adeguato per ottenere questo effetto, secondo Castillo, i migliori mitocondri che sono “lavatrici” di lattato sono quelle associate all’esercizio di resistenza, come il ciclismo.
“Pertanto, prescrivere dosi di attività fisica a un’intensità e un volume stabiliti può essere molto decisivo nella lotta contro il microambiente tumorale, ma questa prova preliminare deve essere confermata negli studi sugli esseri umani per ratificare il ruolo dell’esercizio come trattamento in grado di migliorare l’efficacia delle principali terapie”, ha concluso Castillo.
Le analisi geografiche di incidenza dei tumori e studi su animali dimostrano che la dieta ipercalorica e iperlipidica con grassi saturi e zuccheri è un fattore di alto rischio. Il sempre maggiore quantitativo di carboidrati raffinati nella dieta aumenta i livelli di insulina, spingendo le cellule adipose ad aumentare la loro attività di immagazzinamento dei zuccheri e favorendo le risposte biologiche che promuovono l’obesità in un gran numero di persone. I cibi ad alto indice glicemico – patatine, crackers, bevande zuccherate, cereali per la colazione e anche pane e riso bianchi e quindi pizza, lasciano in bocca un gusto dolce che deriva dalla scomposizione degli zuccheri dell’amido: questa sensazione stimola a consumarne ancora e causa sbalzi dei valori glicemici nel sangue. Ratti alimentati con una dieta basata su carboidrati rapidamente digeribili accumulano il 71% in più grasso rispetto ad altri ratti, che consumavano più calorie, ma attraverso carboidrati lentamente digeribili. Più alta è la glicemia, più alto è il rischio di cancro al seno. Per tenere bassa la glicemia bisognerebbe evitare l’uso di cibi a indice glicemico alto ad esempio il pane bianco da farine raffinate. Il consumo elevato di cibi che fanno aumentare molto la glicemia, è associato ad un rischio aumentato del 50% di sviluppare un tumore dell’intestino (Sieri S et al. 2014 Int J Cancer Nov 18) o della mammella (Sieri S et al. 2007 Am J Clin Nutr 86:1160). I cibi ricchi di carboidrati a basso indice glicemico; la pasta di grano duro, i cereali integrali, i legumi, al contrario, conferiscono una protezione. Il meccanismo con cui la glicemia elevata aumenta il rischio è probabilmente duplice: da un lato perché le cellule tumorali, per vivere, hanno bisogno di circa 20 volte più glucosio delle cellule normali, dall’altro perché glicemia alta implica insulina alta, che a sua volta aumenta la disponibilità di ormoni sessuali e dei fattori di crescita che stimolano la proliferazione delle cellule tumorali.
L’espressione stile di vita si riferisce prevalentemente alle scelte alimentari ed alla attività fisica che contraddistinguono il modo di vivere dell’individuo nel quotidiano. Il Fondo Mondiale per la Ricerca sul Cancro il cui compito principale è favorire la prevenzione dei tumori dopo un lungo lavoro di revisione ha stabilito delle raccomandazioni per la prevenzione alimentare del cancro
Obiettivi da perseguire per una corretta alimentazione:
Ridurre le calorie
Limitare le proteine di origine animale eccetto il pesce
Limitare il consumo di carni rosse e di grassi saturi
Evitare le carni conservate comprendenti carne in scatola, salumi, prosciutto, wurstel etc
Limitare il consumo di alcool
Evitare il consumo di bevande zuccherate
Privilegiare cereali non raffinati, legumi, frutta, verdura, pesce azzurro e olio di oliva extravergine
UNA DIETA SANA È UNA DIETA AMICA DELL’AMBIENTE!
Fai la scelta giusta e scegli cibo buono per te e buono per l’ambiente!
Le nostre scelte quotidiane contano! Imbandisci la tua tavola con cibo buono pulito giusto e sano! Ecco i nostri consigli:
Anche i pesci hanno una stagione! Seguila e scegli pescato di piccola taglia e locale, che non abbia percorso lunghe tratte. Evita, per quanto possibile, i pesci allevati.
Preferisci uova locali e biologiche! Per la tua salute e quella delle galline!
Segui la stagione! Preferisci prodotti freschi e locali, coltivati con metodi agroecologici.
Preferisci formaggi a latte crudo e provenienti da animali allevati al pascolo.
Privilegia cereali integrali e farine poco raffinate e cerca varietà locali o tradizionali.
Riduci lo zucchero aggiunto e modera il consumo di alimenti processati, preferisci cibi freschi e integrali.
Evita un eccessivo consumo di sale: sfrutta l’incredibile varietà delle erbe aromatiche e delle spezie per insaporire i tuoi piatti.
Porta più legumi nella tua tavola! Sono un concentrato di nutrienti salutari e una fonte eccellente di proteine!
Mangiamo troppa carne, riducine il consumo! Scegli tagli e specie differenti. Rivolgiti a produzioni attente all’impatto ambientale e alla salute degli animali.
Ceci, fagioli, lenticchie… Leguminose: alimento chiave per una dieta bilanciata e un ambiente sano
L’assunzione di proteine vegetali è in aumento in molte regioni dell’UE, in particolare nell’Europa occidentale e settentrionale. A tale dato corrisponde uno sviluppo del mercato delle alternative alla carne e ai prodotti lattiero-caseari con tassi di crescita annua che toccano rispettivamente il 14% e l’11% (dato europeo). In questa panoramica che include un cambiamento delle abitudini alimentari, i legumi giocano un ruolo fondamentale essendo un’importante fonte vegetale di proteine, oltre che di minerali, vitamine, amidi a basso indice glicemico e fibre. Il trend positivo di produzione dei legumi arriva dopo una drastica diminuzione che ha colpito l’Italia a partire dagli anni ’60 e che ha raggiunto il suo picco peggiore nel cinquennio 2010-2015. Non è un caso se il calo di produzione di leguminose alimentari sia avvenuto in contemporanea al boom economico data la loro fama di “cibo povero” dovuta al basso costo, ma accanto al problema di percezione bisogna ricordare come la scarsa richiesta da parte dei consumatori abbia portato i contadini ad abbandonare la loro coltura sebbene storicamente il consumo di legumi fosse molto diffuso nell’area Mediterranea.
Oltre alla motivazione che riguarda la promozione di una dieta bilanciata ricca di legumi anche utilizzati come ingrediente principale per prodotti quali pasta 100% legumi, la loro coltivazione è da incentivare perché rappresentano un presidio ecologico. Capaci di assorbire l’azoto presente nell’atmosfera e di trasformarlo in azoto organico grazie ai loro microrganismi, la coltura delle leguminose è definita “miglioratrice”, cioè in grado di migliorare sia la fertilità sia la struttura fisica del terreno. Tale caratteristica la rende una coltivazione particolarmente adatta alla rotazione – pilastro di un’agricoltura sostenibile –, oltre ad attribuirle un ruolo importante nella riduzione delle emissioni di Ghg (greenhouse gases: gas serra). Le leguminose, infatti, fissano l’azoto lasciandolo nel suolo a disposizione della coltura successiva, rendendo così possibile un’importante riduzione delle fertilizzazioni azotate – grande fonte di inquinamento ambientale da nitrati – senza compromettere la produttività.

Il problema del gas a effetto serra è strettamente legato alla dieta dato che il 23% delle emissioni umane di Ghg deriva dalle deforestazioni e dalle trasformazioni del suolo connesse all’agricoltura industriale. L’approfondito studio dell’Ipcc (comitato intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite) del 2019 intitolato Climate Change and Land sottolinea come siano necessarie delle modifiche nell’uso del suolo nell’agricoltura e nelle abitudini alimentari per far fronte ai cambiamenti climatici. La perdita di produttività della terra, infatti, ha come conseguenza il degrado del terreno che porta all’erosione e, successivamente, alla desertificazione. La gestione sostenibile del territorio, considerata utile per la conservazione della terra, include tra le misure suggerite anche la rotazione delle colture e le colture di copertura; entrambe tecniche che vedono nella coltivazione dei legumi una valida scelta.
Le leguminose svolgono, difatti, un ruolo importante nel miglioramento strutturale del suolo, nell’aumento della sostanza organica anche negli strati più profondi del terreno, oltre che essere particolarmente consigliate per tenere il terreno coperto nell’intervallo di tempo che intercorre tra le colture principali. Un incremento di tali coltivazioni deve inevitabilmente corrispondere a una richiesta di mercato che riflette una dieta ricca di cibi a base vegetale. Gli esperti dell’Ipcc sottolineano come le scelte alimentari influiscano sull’ambiente a partire dal dato che vede il consumo di carne a livello mondiale più che raddoppiato negli ultimi 60 anni. Un’informazione, quest’ultima, da leggere ricordando il peso dell’allevamento in termini di risorse, quali acqua e terra.

A fronte del report dell’Ipcc che indica la transizione alimentare verso diete a base prevalentemente vegetale come una delle “più importanti opportunità di adattamento e mitigazione ai cambiamenti climatici generando significativi benefici in termini di salute umana”, i legumi e il loro sfruttamento in agricoltura rappresentano un elemento chiave tanto da far nascere Increase (Intelligent Collections of Food-Legume Genetic Resources for European Agrofood Systems), un nuovo progetto di ricerca europeo che coinvolge 28 partner, tra cui la Fao, di 14 paesi diversi. Partendo dall’analisi dello stato delle risorse genetiche vegetali di 4 importanti legumi tradizionali europei (ceci, fagioli, lenticchie e lupini), l’iniziativa ha come obiettivo la creazione di strumenti e metodi di conservazione per favorire la biodiversità agricola in Europa e promuovere la coltivazione e il consumo di leguminose alimentari. Increase intende anche intervenire nell’attuale carenza che costringe l’Italia a dipendere dall’importazioni di legumi per soddisfare la propria domanda. Tra gli scopi di Increase c’è anche quello di mettere alla prova un approccio decentralizzato per la conservazione delle risorse genetiche e di aumentare la conoscenza dei cittadini sulla biodiversità dei legumi. A partire dal 2021, a chi ne farà richiesta saranno distribuite più di 1000 diverse varietà locali di fagiolo comune da coltivare nei campi, negli orti o nei giardini di casa. Questo coinvolgimento attivo nelle attività di conservazione, coltivazione, condivisione e scambio di sementi verrà veicolato tramite un’App mobile appositamente creata per Increase.
Come risposta all’emergenza climatica, oltre che alla questione di salute alimentare, la partecipazione reale è forse il mezzo più efficace per condividere la responsabilità che ognuna e ognuno di noi si deve assumere davanti al futuro del Pianeta. Aumentare la sensibilità nei riguardi dell’ecosistema terrestre a partire dalla diffusione di conoscenze fa sì che i vari strati della popolazione possano riconoscere il peso delle scelte individuali: evitare di rendere la dieta equilibrata e sana nonché la coltura delle leguminose appannaggio dei consumatori coscienziosi o degli agricoltori lungimiranti rappresenta una forma di equità sociale nonché una misura di sicurezza ambientale e alimentare. In un contesto di cambiamento climatico, lo sfruttamento senza freni del terreno può portare a conseguenze pericolose per il destino di molti popoli – se si pensa che la desertificazione è strettamente connessa alla mancanza di cibo e dunque alla denutrizione. Nell’urgenza di azioni mirate necessarie per salvare il suolo e le foreste, le diete bilanciate fanno da perno e in questo sistema di connessioni la coltivazione e il consumo dei legumi rappresentano un punto di partenza non trascurabile.
Come la produzione industriale del cibo incide sull’antibiotico resistenza
Carne e pesticidi contribuiscono alla crisi sanitaria in atto. Ma l’Unione europea non se ne sta occupando.
Sarebbe un errore però attribuire la crisi sanitaria dell’antibiotico resistenza al solo abuso di prescrizioni di antibiotici da parte dei medici, come abbiamo denunciato nella scorsa rubrica in relazione all’Italia. Il fenomeno, sia chiaro, esiste e va esplicitato ma tutto sarebbe più facile se l’antibiotico resistenza dipendesse solo da come i medici somministrano gli antibiotici nel mondo. La questione invece è molto più complessa e sistemica. Il modello di produzione industriale del cibo è una delle principali fonti di questa pandemia.
1,2 milioni. È il numero rivisto e aggiornato dei decessi dovuti ad antibiotico resistenza nel 2019 nel mondo. Fonte: The Lancet, 2022
Dieta mima-digiuno, dal modello animale ai primi risultati nei pazienti oncologici
di Cristian Ferrario, Daniela Ovadia – Agenzia Zoe
Un regime di forte restrizione calorica, la cosiddetta dieta “mima-digiuno”, è sicura e tollerata dai pazienti oncologici e porta a modifiche metaboliche e immunitarie che potrebbero rivelarsi preziose alleate dei trattamenti anti-cancro.
Lo scrivono sulla rivista Cancer Discovery i ricercatori italiani guidati da Claudio Vernieri, oncologo presso la Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e direttore del laboratorio di Riprogrammazione metabolica nei tumori solidi presso IFOM, sempre nel capoluogo lombardo.
“Studi su modelli sperimentali murini hanno dimostrato che il digiuno intermittente o le diete mima-digiuno aumentano l’attività dei trattamenti antineoplastici attraverso una modulazione del metabolismo e un incremento dell’immunità antitumorale” esordiscono gli autori, che hanno valutato gli effetti di simili regimi dietetici nell’uomo.
Nello studio sono stati coinvolti 101 pazienti in trattamento per diversi tipi di tumore, ai quali è stato chiesto di seguire un regime mima-digiuno di cinque giorni nei quali venivano consumate in totale 1800 chilocalorie (600 il primo giorno e fino a 300 nei 4 giorni successivi). “Il regime è stato ripetuto ogni 3-4 settimane e tra un ciclo e l’altro ai pazienti non veniva imposta alcuna restrizione, ma veniva comunque suggerito di seguire le classiche raccomandazioni per una dieta sana” precisano Vernieri e colleghi.
A differenza di quanto registrato in studi precedenti, la quasi totalità dei pazienti è riuscita a seguire il regime alimentare di restrizione, con una compliance globale del 91,8% considerando tutti i cicli. “Inoltre, la dieta mima-digiuno è riuscita a modificare il metabolismo e la risposta immunitaria sia sistemica che intra-tumorale” spiegano i ricercatori.
In particolare, dal punto di vista metabolico sono state osservate riduzioni del 18,6% nelle concentrazioni plasmatiche di glucosio, del 50,7% nell’insulina sierica e del 30,3% nei livelli sierici di IGF-1, con un effetto mantenuto nel corso dei cicli.
Rassicuranti i dati relativi alla perdita di peso, che potrebbe rappresentare un problema in questi pazienti: il calo ponderale è stato recuperato nei periodi compresi tra due cicli di regime mima-digiuno.
Come spiegano gli autori, però, la novità maggiore dal punto di vista biologico e più rilevante dal punto di vista traslazionale è la scoperta che il regime mima-digiuno ha un ampio effetto di immunomodulazione. “Di fatto i nostri risultati forniscono la prima prova che questo regime produce nell’uomo effetti immunomodulatori sistemici che si associano all’attivazione di numerosi programmi anti-cancro a livello del tumore” scrivono.
“Nell’ottica di raggiungere gli effetti biologici desiderati, siano essi metabolici o immunitari, è fondamentale definire la durata ottimale dei regimi di digiuno o mima-digiuno. Un argomento ancora aperto” concludono Vernieri e colleghi.
Secondo Licia Rivoltini, responsabile dell’Unità di Immunoterapia dei Tumori Umani presso l’Istituto Nazionale dei Tumori, “l’intensa restrizione calorica ha generato uno shock metabolico che ha attivato diverse popolazioni di cellule immunitarie che potrebbero potenziare l’attività antitumorale dei trattamenti standard”.
Per studiare gli effetti della dieta mima-digiuno sull’immunità intratumorale, Vernieri e colleghi hanno eseguito un’analisi ad interim di un altro studio in corso (DigesT) che stava sperimentando un ciclo di cinque giorni di dieta da sette a 10 giorni prima dell’intervento chirurgico in pazienti con cancro al seno in fase iniziale e in pazienti con melanoma. Nello specifico, hanno valutato le cellule immunitarie infiltranti il tumore e il trascrittoma in 22 pazienti con cancro al seno, per le quali era stato raccolto abbastanza tessuto tumorale prima e dopo il periodo di restrizione calorica.
Questa analisi ha rivelato un aumento significativo delle cellule T CD8+ infiltranti il tumore e altri cambiamentiche vanno nella direzione di un microambiente immunitario antitumorale. Secondo gli autori, questio effetti immunomodulatori desiderabili indotti sono stati osservati sia a livello sistemico sia nel tessuito tumorale, indicando una risposta immunitaria sistemica.
Si può quindi già passare all’uso in clinica di questa strategia? Non proprio, perché il principale limite di questo studio è che non consente ai ricercatori di trarre conclusioni sull’efficacia antitumorale della restrizione calorica, avendo arruolato un gruppo eterogeneo di pazienti con diversi tipi di tumore e diverse terapie antitumorali, il che impedisce una valutazione quantitativa della dieta sugli esiti delle cure. Per questo sono in corso altri studi )tra i quali lo studio BREAKFAST) che dovrebbero permettere di capire se gli effetti metabolici e immunologici indotti dalla restrizione calorica hanno conseguenze clinicamente rilevanti.
Lo studio pubblicato è stato finanziato dalla Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, dall’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC) e dal Programma Quadro dell’Unione Europea Horizon 2020. Vernieri, Rivoltini e de Braud sono hanno messo a punto il regime mima digiuno usato in questo studio e che è in attesa di brevetto.
La dieta mima digiuno contro il tumore della mammella triplo negativo
di Elena Riboldi (Agenzia Zoe)
Nuovi esperimenti di laboratorio mostrano il potenziale della cosiddetta “dieta mima digiuno” nel tumore della mammella triplo negativo. I ricercatori dell’Istituto FIRC di Oncologia Molecolare (IFOM) di Milano hanno osservato che questo tipo di protocollo alimentare riduce il numero e la capacità rigenerativa delle cellule staminali e attiva nelle cellule tumorali differenziate alcune vie molecolari che possono essere bloccate da farmaci specifici. Il risultato finale, almeno nel modello animale, è la regressione del tumore con ridotta tossicità.
La dieta mima digiuno (DMD) è un protocollo alimentare in base al quale periodicamente si riduce l’apporto calorico, simulando quindi la situazione di digiuno. In precedenza, il laboratorio “Longevità & Cancro” guidato da Valter Longo in IFOM aveva dimostrato in modelli sperimentali che la DMD aumenta l’efficacia della chemioterapia nel tumore alla mammella triplo negativo. Il nuovo studio, sostenuto dalla Fondazione AIRC e pubblicato sulla rivista Cell Metabolism, suggerisce che abbinando questa dieta e terapie farmacologiche mirate si possa arrivare anche a far regredire il tumore.
Nei loro esperimenti condotti su topi di laboratorio, i ricercatori hanno scoperto che le cellule staminali all’interno del tumore sono molto sensibili alla riduzione dei livelli di glucosio causata dalla DMD: la dieta riduce sia il numero delle cellule staminali tumorali sia la loro capacità di crescere. In linea con questa scoperta, un’analisi retrospettiva, condotta in collaborazione con l’Istituto Nazionale Tumori di Milano su un campione di un’ottantina di pazienti, ha evidenziato che le pazienti con TNBC metastatico con livelli di zuccheri nel sangue più bassi avevano una sopravvivenza maggiore rispetto a pazienti con più alti livelli di glicemia.
“Tuttavia – spiega Longo – abbiamo notato che utilizzando la DMD come unico intervento si ottiene sì un rallentamento nella progressione tumorale, ma senza arrivare a una completa remissione della malattia, in quanto le cellule tumorali sopravvivono durante il digiuno”. Il passo successivo è stato perciò studiare i meccanismi di sopravvivenza attivati dalle cellule tumorali differenziate. Sono stati identificati con la tecnica dell’RNA seq i pathway molecolari attivati dalle cellule del TNBC per sopravvivere al ridotto apporto nutrizionale, tra cui PI3K/AKT, mTOR, e CDK4/6. Utilizzando farmaci che bloccano questi specifici pathway, già in uso in molteplici sperimentazioni cliniche, i ricercatori hanno osservato una regressione del tumore e un aumento della sopravvivenza degli animali trattati. Inoltre, con la DMD diminuivano gli effetti collaterali dei farmaci, causa di tossicità importanti, indipendentemente dalla crescita del tumore.
“Il nostro studio – conclude Longo – identifica quindi un metodo che, se validato clinicamente in studi clinici con ampie casistiche, potrebbe essere potenzialmente utilizzabile contro molti tipi di tumore. Il metodo consisterebbe nell’usare la tecnica di RNA seq per valutare quali meccanismi di fuga siano stati attivati dalle cellule tumorali per sopravvivere in caso di mancanza di nutrienti”. Ciò permetterebbe di selezionare le terapie farmacologiche che agiscono su quei meccanismi di fuga e indurre la regressione del tumore. In più, la DMD, riducendo le cellule staminali tumorali, consentirebbe di prevenire l’insorgere della resistenza ai farmaci.
Il ruolo della vitamina D nel tumore al seno
Il recettore della vitamina D, in particolare della sua forma 1,25 D, è presente sia nella ghiandola mammaria sia nelle cellule del tumore mammario. Il legame della vitamina D con tale suo recettore regola il normale sviluppo della ghiandola mammaria e la sua sensibilità alla cancerogenesi.
La vitamina D è implicata in meccanismi che sopprimono l’attività proliferativa e che inibiscono l’effetto anti-apoptotico, cioé quella capacità delle cellule tumorali di sopravvivere di più di quelle sane. In particolare, il complesso recettore-vitamina D inibirebbe la replicazione delle cellule maligne, attiva l’apoptosi cioé il suicidio programmato della cellula, l’autofagia (meccanismo di rimozione selettiva di componenti cellulari danneggiati) e la differenziazione.
Si tratta di vantaggi molto importanti, ma non sono i soli. L’attivazione del recettore pare in grado di proteggere le cellule dal danno del DNA, inoltre attiva il sistema immunitario e sopprime infiammazione e angiogenesi e quindila formazione di metastasi.
Si è notato, infine, che la carenza di vitamina D è comune nelle pazienti con tumore al seno e che il suo deficit è associato a un maggiore rischio di sviluppo e progressione della malattia.



Prevenire il cancro anche a tavola
La globalizzazione nel nostro modo di mangiare ha sostituito la cucina tradizionale basata sul cibo agricolo, quel cibo povero per le tasche ma ricco per la salute. Con la globalizzazione sta scomparendo la biodiversità alimentare, gastronomica e culturale del cibo.Troppa carne, troppi grassi saturi, troppi cereali raffinati, troppi latticini, troppo poca frutta, troppo poca verdura, troppo pochi legumi, troppo poco pesce azzurro, che contrastano con i dettami di una vera e sana dieta mediterranea. Con una omologazione anche nel gusto facendoci perdere sapori, salute, memoria, tradizioni e sostenibilità. Nonostante le difficoltà di affrontare sperimentazioni analitiche, data l’interazione complessa tra alimenti e metabolismo insulinico ed ormonale, è ragionevole ritenere che l’aumento del consumo di frutta, verdura, cereali integrali, legumi, e la riduzione di grassi specie saturi sia una strada da percorrere a livello preventivo nella lotta ai cancri più diffusi, colon e mammella.
L’ American Institute for Cancer Research ha stimato che circa un terzo di tutte le morti per tumore siano legate all’adozione di stili di vita inadeguati (sovrappeso, sedentarietà, fumo). Sulla base di queste evidenze scientifiche la prima strategia di difesa di cui disponiamo è fare scelte più salutari, come mantenere il peso forma, adottare una corretta alimentazione, praticare attività fisica e non fumare.
Le associazioni mediche nazionali e internazionali hanno sottolineato l’importanza di adottare strategie preventive efficaci per combattere i tumori, non solo sottoponendosi a controlli medici periodici (prevenzione secondaria) ma anche attraverso l’adozione di stili di vita più salutari (prevenzione primaria).
Altro:
La vitamina D costituisce un caso particolare perché i suoi livelli nell’organismo non dipendono solamente dalla quantità assunta con il cibo. Trascorrendo del tempo all’aria aperta, sotto i raggi del sole, questa vitamina viene prodotta proprio a livello della cute. La sua produzione dipende, quindi, in gran parte da quanta ne viene sintetizzata nell’organismo, mentre solo in minima parte (circa il 10%) è assunta con la dieta. Scopriamo ora quali sono i cibi che contengono vitamina D.
Tra gli alimenti che contengono vitamina D una nota di merito va all’olio di fegato di merluzzo. In realtà non si tratta di un vero e proprio cibo, ma viene ancora oggi utilizzato come una delle principali fonti di questa vitamina.

Ci sono poi altri cibi ricchi vitamina D che possiamo introdurre nella nostra dieta, perlopiù dobbiamo concentrare la nostra attenzione sempre sul pesce. Tra le fonti principali di vitamina D ci sono, infatti, i pesci grassi che comprendono il salmone, l’anguilla, il tonno, la trota e lo sgombro. E oltre al pesce, la vitamina D dove si trova?
Altri cibi con vitamina D
La vitamina D è presente anche in altri alimenti, anche se le quantità sono spesso inferiori rispetto ai tipi di pesce che abbiamo menzionato. Tra questi abbiamo il latte e i suoi derivati, tra cui i formaggi grassi, ma anche nel burro.
Un’altra fonte di vitamina D è nelle uova, specialmente nel tuorlo, per quanto riguarda la carne, invece non ci sono livelli sufficienti. Fa eccezione però il fegato, che oltre a essere ricco di ferro e proteine contiene anche in parte questa vitamina. Spesso i mix di cereali e muesli venduti per la prima colazione sono arricchiti con diverse vitamine, tra cui proprio la vitamina D.