Stefano Ciatto – Medico di fama internazionale, si occupava prevalentemente di senologia, a seguito di un incidente è mancato. Tutte le donne ed i medici che hanno conosciuto Stefano hanno potuto apprezzare il suo rigore scientifico ed il suo spirito critico. Molti medici hanno imparato da lui, molti hanno sviluppato la cultura dello screening e della diagnosi precoce. Tutti abbiamo apprezzato la sua onestà intellettuale ed i suoi studi scientifici sempre puntuali e conclusivi, mai dubbiosi. Mancheranno a tutti la sua ironia, le sue provocazioni, la sua schiettezza, la sua rigorosa metodologia scientifica, il suo entusiasmo ed i stimoli nel diffondere una corretta cultura dello screening. Sarà difficile proseguire il suo lavoro intellettuale e scientifico e colmare il vuoto umano che ha lasciato. La senologia convive sempre di più con l’errore statistico e sta imparando faticosamente a prendere decisioni in base a considerazioni di tipo probabilistico. Queste difficoltà non sempre sono ben percepite con sufficiente chiarezza dall’opinione pubblica ed in ambiente giudiziario. Molte donne giovanni si rivolgono a servizi di senologia per la mammografia in assenza di sintomi o indicazioni. Il medico che correttamente sconsiglia l’esecuzione dell’esame può trovarsi a dover rispondere per uno dei rarissimi casi su base probabilistiche in cui il carcinoma della mammella si sviluppa in età giovanile in assenza di sintomi o condizioni fortemente predittive. Per scongiurare queste eventualità dovremmo assecondando la medicina difensiva prescrivere la mammografia a tutte le donne ripetendola ad intervalli molto ravvicinati. Questo comportamento iperdifensivo è incompattibile (oltre che inutile e dannoso) con una pratica clinica corretta e attenta ai costi benefici e alla salute della donna. Sempre più chi pratica la senologia e’ tentato di assecondare la volontà difensivistica prescrivendo esami spesso inutili e costosi per “evitare grane”.
Riportiamo oltre ad una parte del suo materiale scientifico una specie quasi di testamento di Stefano sulla medicina moderna e sui difficili rapporti medico-paziente.
Pubblicato febbraio/2012.
L’abitudine di ricorrere al tribunale per chiedere i danni relativi a un errore medico ha certamente il suo tempio negli Stati Uniti, come dimostra il premio assicurativo annuale che deve pagare un medico americano medio, che è pari a un paio di mesi di stipendio di un suo collega europeo. Ma la soluzione è facile in un Paese in cui la medicina è praticamente solo privata: i medici alzano le tariffe. E certe pratiche “a rischio” (per esempio mettere una spirale contraccettiva, che può essere motivo di infezioni uterine e di una conseguente causa) addirittura non vengono più praticate. In Europa le mode americane arrivano in qualche modo filtrate, forse per effetto della saggezza che ci deriva da una storia più lunga, che tende a mitigare gli entusiasmi. Ma comunque arrivano.
Anche da noi le cause medico-legali fioccano e certe specialità sono particolarmente gettonate. Per esempio la senologia, che è il mio campo, ma che appare anche prediletta dagli avvocati. Le cose, però, cose non sono poi tanto diverse per altre specialità. Che l’uomo sia infallibile nessuno lo ha mai sostenuto: ne consegue che il medico, che è uomo, non è infallibile, e quindi sbaglia (dire “sbaglia” fa più scandalo che dire “non è infallibile”, ma è solo un sinonimo). È quindi giusto che se sbaglia paghi: a tal scopo ci sono le assicurazioni. Quando però si verifica che nell’80 per cento delle cause che arrivano al tribunale il medico viene assolto si ha la tentazione di pensare a una certa immotivata litigiosità dei pazienti che ricorrono al giudizio. O forse non lo fanno per amore di giustizia, ma anche per soldi? Può darsi. Un dettaglio: quando parlo con avvocati lamento il fatto che in Italia è pratica comune che gli avvocati vengano pagati a tempo, indipendentemente che la procedura legale sia vinta o persa.
Mentre negli Usa ci si accorda spesso e l’avvocato prende una parte cospicua dell’indennizzo, se vince, o niente, se perde. Questa seconda opzione, a me pare, dovrebbe scoraggiare gli avvocati a sposare cause perse, e incoraggiarli a fare alla svelta, mentre nella prima opzione, quella italiana, più lunga è la causa e più si guadagna. Non stupisce dunque che si sposino anche cause perse: per l’avvocato non fa alcuna differenza. Non ho mai capito bene dove sia il trucco perché di solito l’avvocato con cui parlo cambia discorso. In ogni caso la situazione è quella che è e i medici corrono ai ripari. Per prima cosa si assicurano, anche se i premi sono differenziati a seconda del rischio, che cambia da specialità a specialità, come per l’auto, dove i premi sono più alti nelle province con più incidenti. E come per l’auto si sta attenti. Non è che uno guida a occhi chiusi solo per il fatto di essere assicurato, perché se c’è l’incidente sono comunque grane. Lo stesso per le cause mediche che, in ambito civile, durano anni con il conseguente corteo di scartoffie, relazioni, interrogatori, interminabili udienze (quando non sono rinviate all’ultim’ora) nell’atmosfera deprimente e dolorosa del tribunale. Quindi è meglio stare attenti a guidare. Guidare piano. Per i medici questo equivale alla medicina difensiva.
Ne faccio un esempio: una signora fa una mammografia che rileva alcune calcificazioni. Una cosa piuttosto comune. Le calcificazioni possono essere un segnale di cancro, ma il più delle volte no. Quelle della nostra signora sono molto poco sospette, diciamo che c’è un rischio di cancro dell’1 per mille. Ma nel dubbio, e per non aver grane, il radiologo prescrive una biopsia. Le conseguenze sono le seguenti: le biopsie delle calcificazioni, che si fanno con una macchina particolare, aumentano drammaticamente di numero: la lista di attesa per quell’esame diventa di mesi e le donne che hanno un cancro hanno conseguentemente un ritardo diagnostico !le biopsie delle calcificazioni hanno un costo elevato (almeno 500 euro) e i costi per il Servizio sanitario nazionale (o per chi paga in proprio) sono enormi !su 1000 biopsie solo una è positiva e 999 donne subiscono una biopsia (un piccolo intervento, mezz’ora, spesso un ematoma), raramente un’infezione per niente. O, meglio, per quell’unica donna che ha un carcinoma, e che magari poteva essere guarita anche se fosse stata controllata e avesse fatto la biopsia dopo un anno (i tumori con calcificazioni sono molto lenti) !il patologo (quello che interpreta al microscopio il frammento di mammella prelevato dalla biopsia), anche lui è un medico e anche lui, potendo sbagliare, corre ai ripari: nei casi poco chiari, per non saper né leggere ne scrivere, consiglia comunque l’intervento. Questo avviene nel 10% dei casi. Sulle nostre 1000 donne, dunque, 100 subiscono un intervento chirurgico (paura, costi, cicatrice, etc…) per niente. E mi fermo qui, ma volendo essere pessimista ci può essere anche di peggio.
C’è la donna che muore per una complicanza anestesiologica. (Ma per fortuna è rarissimo). Quindi la medicina difensiva ha moltiplicato le indagini e gli accertamenti, anche quelli che secondo le raccomandazioni delle società scientifiche dovrebbero essere banditi, in quanto inutili. E quindi abbiamo schiere di giovani sotto i quarant’anni che si sottopongo a visite senologiche “preventive”, quando si sa che non servono a niente (sia perché poco efficaci, sia perché a quell’età il cancro è rarissimo) e fanno caterve di ecografie inutili. Molte donne tra i 50 e i 69 anni, invitate allo screening biennale, fanno una mammografia “intermedia”: non si sa mai. Evidentemente non si sa neanche che uno studio inglese ha dimostrato che in queste donne la mammografia dà gli stessi benefici che sia fatta ogni anno o ogni tre. Allo stesso modo, anche se è abbastanza chiaro che la risonanza magnetica, eseguita prima di un intervento chirurgico limitato per un piccolo tumore, aumenta fino al doppio le mastectomie senza alcun vantaggio per la donna, viene comunque fatta comunemente. «Non sia mai che poi le faccio un intervento limitato, le viene una recidiva, e lei mi cita perché non le ho fatto la risonanza », pensa e dice il chirurgo. E in questo modo su cento donne candidate alla chirurgia limitata (con gli ovvii benefici psicologici) invece di dieci destinate ad avere una recidiva negli anni successivi e quindi una mastectomia “differita” (che le guarisce), venti fanno la mastectomia “immediata”.
Ogni volta che si fa un esame, utile o inutile che sia, esiste un certo rischio di “falso positivo”: l’indagine cioè sospetta un cancro che invece non c’è. Ma la verità la sapremo dopo, cioè dopo altri accertamenti e spesso dopo un intervento chirurgico. Più esami si fanno e più sono i falsi positivi. E lo sanno bene gli avvocati americani: una statistica di qualche anno fa dimostra che le cause in ambito senologico per falso positivo (intervento inutile) sono diventate di più di quelle per falso negativo (cancro non visto, con ritardo di diagnosi). Perché? Perché dimostrare che un medico non ha visto un cancro non è facile, richiede tempo. E poi sono pochi casi. Invece dimostrare che non c’erano gli estremi per operare è molto più facile (proprio grazie alla medicina difensiva si opera quasi per niente): l’indennizzo è molto minore (e anche per questo il giudice è più disponibile a sentenziarlo), ma i casi sono migliaia (sempre grazie alla medicina difensiva) e ci si mette poco tempo. Quindi conviene. Allora il medico come risponde? Non opera tutte le lesioni, ma le controlla strettamente. Le rivede dopo 3-6 mesi: intanto le donne pagano un’altra prestazione e poi, se ha sbagliato, il ritardo diagnostico sarà di pochi mesi e sarà difficile sostenere un danno sulla prognosi. Per evitare il rischio di una causa i medici conformano anche regole professionali che vorremmo invece fossero dettate solo dalla scienza.
Una classificazione del sospetto radiologico alla mammografia negli Stati Uniti ha coniato una categoria che implica il controllo ravvicinato nel tempo (3-6 mesi) con ripetizione degli esami, per casi di lesione “probabilmente benigna”. Nella vecchia Europa la classificazione corrispondente non ammette questa categoria, ma la pratica del «ti rivedo a breve» è comunque diffusa. Costa molto di più, la moltiplicazione degli esami allunga le liste di attesa, ma il medico in questo modo si sente più protetto. La cosa più sconvolgente è che sono le pazienti a preferire l’accanimento diagnostico, senza rendersi conto che il prezzo (ansia, costi, liste di attesa, cicatrici, qualche rara morte) sono loro a pagarlo. «Allora devo morire?», si lamenta la donna che vede rimandare di mesi la biopsia delle sue calcificazioni, senza pensare che quell’attesa è figlia di tanti accertamenti inutili, prescritti dal medico per difesa e accettati dalle pazienti perché percepiti come più scrupolosi, quando non lo sono. Ma la cosa più bieca sono quei medici che forniscono perizie insensate, sostenendo colpe che non ci sono, a supporto di cause che poi verranno sistematicamente perse: tanto la perizia è stata comunque pagata. A volte questi campioni di incompetenza e disonestà finiscono addirittura per essere periti del giudice. E allora fanno sentenza e fanno condannare ingiustamente.
Soluzioni non ne ho, e francamente penso che non ce ne siano. Se vedete la medicina come un mercato, tutto torna e tutto è lecito. Se invece pensate alla medicina come un’arte nobile, dedicata solo al bene del paziente, facciamo veramente schifo. Mi verrebbe naturale pensare a un medico che si preoccupa del paziente, non soprattutto del suo interesse. Mi verrebbe da pensare a un paziente che stima il suo medico e sa che, se anche ha sbagliato, ha operato in buona fede e nel suo interesse, che non è prontissimo a citarlo per “negligenza, imperizia e omissione”. Mi verrebbe da pensare a un avvocato che fa vagliare il caso a un perito capace prima di fare causa e che sia pronto a convincere l’assistito che non ci sono estremi per un ricorso, invece di sposare cause perse e soffiare sul fuoco. Mi verrebbe da pensare a una medicina difensiva, sì, ma della salute, prima che del proprio di dietro. A proposito di cancri di intervallo Stefano Ciatto – Istituto scientifico per la prevenzione oncologica, Cspo – Firenze Ho letto con attenzione i contributi alla discussione sui cancri di intervallo, e, a mio avviso, alcuni di loro presentano delle criticità. Per quanto riguarda le osservazioni di Marco Petrella, è certamente vero che i cancri di intervallo siano in qualche modo ineliminabili e che i casi rivalutati come “occulti”, cioè invisibili al momento dello screening, rappresentino un limite della metodica ineludibile.Tuttavia, i cancri di intervallo possono anche corrispondere a degli errori di interpretazione, e in questo caso siamo pienamente nel campo del rischio clinico.
Rischio clinico e diagnosticabilità. Attualmente i radiologi vengono chiamati in giudizio tout court per un carcinoma di intervallo, il più delle volte senza che in fase istruttoria si sia valutato se esiste veramente ragione di un contenzioso legale. Ciò che intendo ribadire è che non è il documento ministeriale ad aver collocato i cancri di intervallo nel contesto del rischio clinico, ma proprio la pratica forense. Questo è senz’altro l’aspetto che più attanaglia le viscere dei radiologi addetti allo screening e allo stesso tempo quello che più spesso in giudizio viene gestito malamente, e pertanto, trovo assolutamente pertinente l’aver affrontato di petto la questione medico-legale, inerente il rischio clinico. Comprendo bene la metafora, ma trovo tuttavia normale che il comportamento del soccorritore, che è riuscito a salvare solo 3 delle 4 persone, venga sottoposto a inchiesta interna: il contratto, infatti, in teoria prevede che tutti i “salvabili” vengano salvati. Lo stesso accade per il radiologo, chiamato a diagnosticare tutti i casi “diagnosticabili”. Ma c’è una differenza sostanziale tra soccorritore e radiologo: per il primo, il concetto di “non salvabile” è in genere definito sulla base di quanto riferito e del verbale dell’accaduto (rilasciato dallo stesso soccorritore); per il secondo, il concetto di “non diagnosticabile” è tutt’altro che semplice, e proprio su di esso si addensa tutta la problematica di una corretta valutazione del consulente tecnico d’ufficio (Ctu) e di una giusta modalità di revisione.
Perizie e radiologi. Rispetto a quanto osserva Giuseppetti, non mi sembra che il documento ministeriale stigmatizzi sistematicamente come “errore” il cancro di intervallo. Mi pare, piuttosto, che affermi la possibilità di errore, e che in molti casi, come sopra detto, il carcinoma non sia riconoscibile per un limite della metodica. E che, pertanto, non esista errore ma solo una metodica incapace di fare diagnosi. Quanto al fatto che il Ctu possa essere un non radiologo, si tratta (purtroppo) di una prassi comune. La scelta dei membri della commissione chiamata a pronunciarsi in sede periziale è, infatti, a discrezione del giudice. Tuttavia, esiste un’apposita udienza, in cui viene reso noto il titolare designato come Ctu, nella quale si può fare opposizione e richiedere esplicitamente al giudice che il Ctu sia un radiologo. In ogni caso, anche se il Ctu designato non è un radiologo, i vincoli di legge (che richiedono la specializzazione di coloro che sono chiamati a interpretare i radiogrammi) lo obbligano ad avvalersi di un radiologo, se non vuole che la sua perizia sia impugnata e invalidata in sede di dibattimento. Il radiologo convocato sarà chiamato a stilare la parte che riguarda la valutazione radiologica e a comparire obbligatoriamente in udienza per essere interrogato in merito al giudizio rilasciato. Certamente sarebbe molto più naturale se il Ctu fosse sempre un radiologo. Ma attenzione: se vogliamo essere veramente garantisti non basta un radiologo qualsiasi, ma deve essere un radiologo esperto di mammografia e di screening. E questo, nella mia esperienza di perito, non sempre avviene.
Controlli ravvicinati e ritardi diagnostici. Condivido in gran parte i commenti di Marco Zappa e capisco la sua perplessità nell’etichettare come “diagnosticati dallo screening” (screen detected) i carcinomi scoperti a seguito di controlli ravvicinati (early recall). Concordo che gliearly recall debbano essere rari e che non vi si dovrebbe far ricorso in eccesso, ma ci sono effettivamente dei casi in cui il controllo nel tempo può essere clinicamente giustificato. Certo, il fatto che questi casi siano considerati screen detected e non carcinomi di intervallo, non deve facilitare il ricorso all’early recall. Ma questo è un problema che rimanda alla professionalità dell’operatore e ci si augura che il radiologo esperto eviti di ricorrere ai controlli ravvicinati. Il principio di non assimilare ai cancri di intervallo i carcinomi diagnosticati a seguito di early recall ha, peraltro, una valenza soprattutto “classificatoria”: riguarda un numero limitato di casi e interessa in special modo chi valuta gli indicatori di processo dello screening. In questo senso, se si parte dal presupposto che è cancro di intervallo ogni caso di carcinoma che segue un test di screening negativo o un “processo” (test + approfondimento) di screening negativo, il caso con early recall non vi rientra, in quanto il test di screening è per definizione positivo e l’approfondimento protratto nel tempo, non negativo. Sul piano medico-legale, invece, non è assolutamente detto che un carcinoma diagnosticato dopo 1-2 early recall ripetuti e magari dopo un anno dall’esame di screening, una volta classificato come screen detected, non divenga oggetto di contenzioso per ritardo diagnostico. Molti dei contenziosi medico-legali in ambito mammografico clinico, infatti, riguardano proprio casi in cui l’approfondimento di un’alterazione era stato rinviato a controllo ravvicinato. Questi contenziosi vertono, appunto, sul mancato approfondimento immediato (in genere bioptico), del quale il radiologo è effettivamente chiamato a rispondere.
La fatigue del radiologo influisce sull’interpretazione dell’imaging del seno
Heidi Splete
13 gennaio 2022
Richiami e falsi positivi per i pazienti con imaging mammario erano significativamente più probabili quando i risultati sono stati letti da radiologi meno esperti che avevano lavorato più ore quel giorno, sulla base dei dati di oltre 97.000 mammografie di screening.
La letteratura psicologica ha mostrato l’impatto della fatigue sulle prestazioni in una serie di contesti e studi precedenti hanno dimostrato che le prestazioni dei radiologi sono più accurate all’inizio dei loro turni rispetto alle prestazioni dei turni successivi, scrivono Michael H. Bernstein, PhD, e colleghi di Brown University, Providence, Rhode Island, in uno studio pubblicato online l’11 gennaio su Radiology.
L’effetto dell’ora di break sulle prestazioni può essere maggiore per modalità di imaging più dettagliate che sono più “faticose dal punto di vista cognitivo” e l’effetto può essere maggiore nei radiologi meno esperti, ma l’impatto del tempo e dell’esperienza sul ricordo generale del paziente e sui falsi i tassi positivi non sono stati ben studiati, hanno detto i ricercatori.
Nella revisione retrospettiva i ricercatori hanno identificato 97.671 mammografie di screening lette da 18 radiologi in uno dei 12 siti della comunità tra gennaio 2018 e dicembre 2019. I ricercatori hanno analizzato i risultati per tipo di immagine, mammografia digitale standard (DM) o mammografia digitale più complessa tomosintesi (DBT). I ricercatori hanno separato i radiologi in due gruppi: quelli con almeno 5 anni di esperienza post-formazione e quelli con meno di 5 anni di esperienza post-formazione. Un totale di nove radiologi rientravano in ciascuna categoria.
Nel complesso, i tassi di richiamo erano significativamente diversi e più alti per DM vs DBT (10,2% vs 9,0%; P = .006). Anche il tasso di falsi positivi (FP) differiva significativamente ed era più alto per DM vs DBT (9,8% vs 8,6%; P = .004).
Le probabilità di richiamo sono aumentate dell’11,5% con ogni ora di lettura per i radiologi con meno di 5 anni di esperienza post-formazione sia per DBT (odds ratio [OR], 1,12) che per DM (OR, 1,09). Per i radiologi più esperti, le probabilità di richiamo sono aumentate dell’1,6% per ogni ora di lettura per DBT, ma sono diminuite dello 0,1% per DM, senza differenze significative.
Allo stesso modo, le probabilità di un risultato FP sono aumentate del 12,1% per DBT e del 9% per DM per ora di lettura per i radiologi con meno esperienza. Per i radiologi più esperti, le probabilità di un FP sono aumentate dell’1,6% per DBT ma sono diminuite dell’1,1% per DM per ora di lettura.
Il rilevamento del cancro (definito come vero positivo o TP) non è stato più alto per il DM nel tempo, osservano i ricercatori. Tuttavia, “DBT ha raggiunto un tasso di TP più alto del DM indipendentemente dall’ora del giorno; questo mostra che affinché il DBT mantenga un tasso di TP costante e superiore rispetto al DM, i tassi di FP dei radiologi dovevano aumentare con il passare della giornata”, loro scrivono. “Cioè, sebbene la DBT raggiunga un tasso di TP superiore, più giovani radiologi sembravano compensare la loro stanchezza nel corso della giornata quando usavano la DBT ricordando una gamma più ampia di mammografie, la maggior parte delle quali erano risultati di FP”.
I ricercatori avvertono che i loro risultati sono stati limitati da diversi fattori, tra cui il design retrospettivo dello studio e la mancanza di randomizzazione della tecnologia di imaging, dei pazienti e dell’ora del giorno, che vietano conclusioni sulla causalità. Altre limitazioni includevano la considerazione dell’ora del giorno senza la possibilità di utilizzare le ore dall’inizio di un turno clinico e l’uso di un punteggio di 5 anni per indicare l’esperienza senza tenere conto del volume di lavoro.