Sovradiagnosi e sovratrattamento

Indubbiamente la sovradiagnosi (diagnosi di carcinomi indolenti, spontaneamente non destinati a divenire sintomatici) è inevitabile nello screening oncologico. La sua rilevanza dipende da diverse condizioni: la prevalenza di cancri indolenti, l’anticipazione diagnostica (lead time)  l’aggressività dello screening, l’aspettativa di vita in funzione della fascia di età.

l problema della sovradiagnosi rappresenta sicuramente un danno significativo perché comporta una diagnosi di tumore al seno senza una controparte di benefici (se chi la riceve non avesse partecipato al programma di screening, non avrebbe dovuto sottoporsi a ulteriori accertamenti e trattamenti). Secondo le nostre stime 4 donne tra le 1000 partecipanti al programma di screening incorreranno in una sovradiagnosi, un dato che si aggiunge ai 67 casi di tumore diagnosticati tra le donne della città dove non esiste di un programma di screening mammografico.

Le sovradiagnosi sono dovute alla rilevazione da parte dei programmi di screening di tumori poco aggressivi e in fase di sviluppo precoce, per esempio, in situ, e di tumori invasivi in fase di sviluppo molto precoce. Le conoscenze attuali impediscono di distinguere tra i tumori che diventeranno aggressivi e quelli che non costituiscono una minaccia per la vita. Per questo motivo, la ricerca volta all’identificazione di indicatori e alla definizione di protocolli in grado di ridurre l’impatto del trattamento del cancro al seno è, e deve restare, tra le priorità.

Un altro potenziale danno per le donne sottoposte a screening è l’identificazione di un “falso positivo”, ovvero di un’anomalia sospetta che non viene confermata dai successivi esami di approfondimento. Si trattava di un falso allarme. Seppure la rilevazione di un sospetto non sia equivalente a una diagnosi positiva, si parla comunque di “falso positivo” a causa delle indagini necessarie per verificarne l’esatta natura.
Quando si rende necessaria una valutazione successiva al primo test, nella maggior parte delle volte si tratta di un secondo esame mammografico o di un’ecografia, in alcuni casi, tuttavia, sono necessari ulteriori esami clinici del seno che possono comportare anche interventi invasivi, come la biopsia, per ottenere i tessuti necessari per l’esame istopatologico.

Le conseguenze negative psicologiche legate a questo percorso di accertamento sono state studiate e descrivono solo un impatto nel breve periodo, riconducibile all’ansia. In alcuni Paesi europei, la percentuale totale di donne che durante i 20 anni di partecipazione al programma di screening mammografico incorrono in una diagnosi di falso positivo, è stata stimata nel 17% per follow-up non invasivi e nel 3% per follow-up invasivi.
Poiché questi falsi allarmi sono inevitabili in ogni processo di screening, le linee guida europee tra i parametri di qualità fissano la percentuale massima accettabile di donne sottoposte allo screening che devono essere richiamate per una valutazione successiva (tasso di richiamo) e raccomanda la possibilità di consultazione degli indicatori di performance da parte della popolazione invitata.

Questo studio non prende in considerazione gli effetti a lungo termine come i rischi da radiazione, che sono tuttora molto controversi perché basati su estrapolazioni e quindi di significato incerto. In ogni caso questo tipo di rischio è valutato comunque come molto inferiore ai benefici dello screening

Il sovratrattamento (trattamento delle lesioni sovradiagnosticate) accompagna quasi sempre la sovradiagnosi, sia per l’impossibilità di identificare i singoli casi di carcinoma indolente da sottoporre a sola sorveglianza (lo stadio iniziale e un pattern non aggressivo possono suggerire l’indolenza ma sono anche marker di diagnosi precoce, atta a ridurre la mortalità), sia per la limitata aggressività delle terapie, accettabile in funzione del beneficio dello screening.

Sovradiagnosi e sovratrattamento assumono importanza diversa in funzione della neoplasia oggetto di screening e questo merita una breve riflessione, anche alla luce di opinioni allarmistiche o trionfalistiche che di tanto in tanto fanno capolino creando solamente confusione.

Che la sovradiagnosi e il sovratrattamento sarebbero stati un grave problema era prevedibile per il carcinoma prostatico, per le molte condizioni favorenti. Studi autoptici mostravano elevata prevalenza di carcinoma latente (30-80% in soggetti deceduti per altra causa [1]). Il lead time è stimato nell’ordine di 10-12 anni [2]. Il PSA, test di screening, alterato nel 12-15% degli esaminati, indica la biopsia multipla della prostata, ideale per la diagnosi casuale di neoplasie latenti [3].

L’età media di screening (65 anni) è associata a un’aspettativa di vita di 15 anni (dati italiani), simile al lead time. La sovradiagnosi è stimata almeno al 50% o superiore, a seconda dell’aggressività dello screening [2,4].

In assenza di screening organizzato il poco efficiente screening spontaneo ha causato una vera “epidemia” di carcinoma in tutto il mondo occidentale. Negli USA l’incidenza è più che raddoppiata, con un picco nel 1992 e trend analoghi sono stati osservati in molti Paesi (Australia, Svezia) e anche in Italia. Ad esempio a Firenze, dove lo screening spontaneo non esisteva prima del 1990 e la biopsia si è limitata al 15-20% dei casi con indicazione [5], l’incidenza nei maschi di ≥ 55 anni è passata dal 97,9 (x 100.000) nel 1985 al 297,9 nel 2005 (+ 204%), con un chiaro trend dal 1990 [6]. L’aumento di incidenza è stato tale da far percepire subito il rischio di sovratrattamento. Si sono sperimentate alternative attendistiche (ad esempio watchful waiting) e attualmente la sorveglianza attiva (active surveillance) è comunemente adottata nei CP a presentazione più favorevole (tipicamente nei casi T1-2; Gleason < 7; PSA < 10). Tale atteggiamento conservativo è purtroppo poco impiegato nell’Europa del Sud (Italia compresa) e dell’Est e il sovratrattamento è ancora un enorme ostacolo alla raccomandazione dello screening di popolazione: pur nella evidenza di efficacia (studio ERSPC = riduzione di mortalità del 20% [3]), gli effetti negativi della sovradiagnosi e soprattutto del sovratrattamento comportano un bilancio sfavorevole in termini di qualità di vita.

Il carcinoma mammario è un’altra storia. Studi autoptici [7] hanno dimostrato prevalenza assai inferiore di carcinoma invasivo e in situ (rispettivamente 1,3% e 8,9%). L’anticipazione diagnostica della mammografia è stimata intorno a 2-3 anni [8,9]. Il tasso di biopsie (percutanee o chirurgiche) in screening è al massimo del 2-3% [9]. L’età media di screening è 60 anni e l’aspettativa di vita mediamente di 20 anni (dati italiani). Le stime di sovradiagnosi, in base ai trial randomizzati (Gothenburg e Two Counties = 1% [10]; NBSS I (Canada) = 14% [11]; NBSS II = 11% [11]; Edinburgh = 13% [11]) e a screening “di servizio” (Firenze = 0-13% [12-13]) sono abbastanza rassicuranti e non si è mai sostenuto che la sovradiagnosi potesse compensare negativamente i benefici dello screening, che infatti viene comunemente raccomandato dalla CE [14]. Con lo screening non si è verificata alcuna “epidemia” di carcinoma mammario: ad esempio in Firenze, con copertura totale dal 1990, l’incidenza (50-69enni) è salita da 178,2 nel 1985 a 279,0 nel 2005 (+ 56%, assai meno del + 204% osservato per il carcinoma prostatico), con un trend sostanzialmente stabile [6]. Trend analogo è stato osservato in molti altri Paesi occidentali dopo l’implementazione di un programma nazionale. In realtà c’è qualche voce contraria, in particolare di alcuni Autori scandinavi che sostengono una sovradiagnosi molto più elevata, fino al 30-40% [15] e che lo screening possa fare “più male che bene”. Questi studi sono stati fortemente criticati dalla comunità scientifica per l’inadeguatezza del disegno statistico (ad esempio mancato aggiustamento per lead time e dubbia comparabilità delle aree geografiche a confronto) e non sono risultati convincenti.

La sovradiagnosi, cioè la diagnosi di una malattia in un soggetto asintomatico che non avrebbe portato ad alcun disturbo durante l’intera vita del soggetto stesso, è uno dei più dirompenti fenomeni degli ultimi decenni in sanità pubblica. Può avere conseguenze drammatiche sia per il benessere della popolazione, perché capace di minare la qualità della vita di milioni di persone, sia per la sostenibilità del servizio sanitario, laddove esiste. Le cause dell’aumento del fenomeno della sovradiagnosi vanno ricercate in molti e variegati meccanismi, sia interni alla sanità sia più generali e propri della società moderna:

• Una sorta di sindrome da controllo che si è diffusa nella popolazione (“Sto bene, ma è già tanto tempo che non faccio gli esami…”);

• la necessità di una medicina sempre più difensivistica, che tende a dover escludere ogni possibile stato morboso in qualsiasi individuo si presenti e per qualsiasi problema clinico;

• la comprensibile e lecita soddisfazione individuale del clinico nell’identificare precocemente una malattia potenzialmente letale quale un tumore maligno;

• la pressione economica dei produttori (biomedicali e farmaci, ma non solo), che promuovono l’uso dei test per vendere non solo i test stessi, ma anche più farmaci e/o presìdi a chi risulterà “positivo” a quei test;

• la creazione di pseudo-diagnosi a fini di lucro (disease-mongering);

• il conflitto d’interesse di clinici e Società scientifiche che spingono a incrementare il ricorso a determinate prestazioni;

• la disponibilità e la diffusione di esami di imaging estremamente sensibili, che portano a rilevare “incidentalmente”, durante l’esecuzione di un esame diagnostico non correlato, lesioni dette appunto incidentalomi, generalmente neoplastiche.

È difficile individuare dove esattamente si possa generare sovradiagnosi, perché questa può prodursi in ogni contatto del servizio sanitario con utenti sani. Inoltre, non sempre sono esami diagnostici moderni e sofisticati a individuare degli stati morbosi asintomatici che potrebbero non evolvere, o per i quali non c’è miglioramento della prognosi con l’anticipazione della diagnosi.

Alle volte all’origine vi è un semplice esame obiettivo, o un esame del sangue “routinario”. Ne deriva che uno dei compiti del servizio sanitario oggi è quello di governare l’uso della diagnostica, anche la più apparentemente “banale”, quando se ne prospetti l’uso su di una vasta fetta di popolazione, soprattutto se sana, ma non solo, come dimostra ad esempio l’epidemia di incidentalomi della tiroide identificati dall’ecodoppler carotideo (Steel 2005). Governare comprende anche saper individuare le occasioni ove dimori il rischio di sovradiagnosi e adottare regole per ridurre le prescrizioni inappropriate. Ciò deve però assolutamente accompagnarsi alla consapevolezza che porre limitazioni all’accesso di alcuni esami potrebbe avere conseguenze disastrose di ritardo di diagnosi anche per i casi sintomatici.

Screening ed efficacia

Scelte basate sulle prove di efficacia, rivalutate periodicamente da agenzie internazionali, hanno portato a individuare ad oggi solo tre screening oncologici raccomandabili per la popolazione generale: cervice uterina, colon-retto e mammella (Ministero della Salute 2005). Questi tre screening sono raccomandati dalla quasi totalità delle società scientifiche e delle Agenzie governative. L’Unione Europea ne raccomanda l’implementazione in programmi organizzati secondo precisi protocolli (Council Recommendation 2003). Per i primi due non sussiste il problema della sovradiagnosi propriamente detta, in quanto lo screening permette di ridurre l’incidenza dei cancri invasivi attraverso il trattamento delle lesioni pre-invasive.

Nel caso della mammella, invece, il problema della sovradiagnosi esiste. Proprio sulla spinta della revisione del Nordic Cochrane Centre (Gotszche 2013) e di alcuni lavori che mettevano in evidenza una forte sovradiagnosi (Jorgensen 2009), sono state avviate due revisioni della letteratura, una dell’Independent UK Panel (UK Independent Panel 2012) voluta dal NHS – National Health System inglese e una di un gruppo di esperti valutatori dei programmi di screening europei (Euroscreen 2012).

Entrambe le revisioni hanno fornito dati di rapporto fra vite salvate e sovradiagnosi molto lontani da quanto riportato dal Nordic Cochrane Centre: 1 vita salvata per 4 cancri sovradiagnosticati del UK Independent Panel, e 1 per 0.5 dell’Euroscreen group. Entrambe le revisioni concludono senza incertezze che i programmi di screening devono continuare. Selezionare con rigore gli screening da proporre è il primo passo, tuttavia non sufficiente.

Bisogna infatti rispettare rigorosamente i protocolli, che ottimizzano il rapporto fra benefici di salute da una parte e dall’altra effetti collaterali, sovradiagnosi, falsi positivi, accertamenti non necessari e invasività dei trattamenti. Il mancato rispetto di anche uno solo dei criteri validati per ogni specifico screening – come p. es. intervalli più brevi, fasce di età sbagliate, eccesso di tassi di richiamo – rischia di rendere non efficace o almeno non costo-efficace uno dei tre soli screening Evidence-Based. Ciò è stato ripetutamente dimostrato dai molti confronti presentati in letteratura fra gli screening per la mammella statunitensi, più aggressivi, con intervalli più brevi e meno controllati, e quelli Europei (Smith-Bidnam 2003, Hofvind 2008).

Ogni nuova tecnologia o cambiamento di protocollo da introdurre negli screening di popolazione richiede infatti una lunga sperimentazione con grandi trial pragmatici, e deve essere sottoposto ad una valutazione di impatto epidemiologico, organizzativo, sociale ed etico sulla popolazione e sul servizio sanitario. Solo così sono stati definiti, e vengono ogni volta aggiornati e ridefiniti, i protocolli dei programmi di screening raccomandati dalle linee guida europee.

Screening ed equità

Un servizio sanitario universalistico e che abbia l’obiettivo di ridurre le diseguaglianze di salute, deve anche preoccuparsi di garantire l’accesso ai tre screening efficaci a tutti coloro che ne possono trarre beneficio. L’unico mezzo per garantire efficacemente ciò sono i programmi organizzati di screening con invito attivo della popolazione. Un invito che sia comprensibile per tutti, che esponga i possibili benefici e non nasconda i possibili effetti negativi, ma che espliciti anche che, sebbene ogni scelta sia corretta per l’individuo, il servizio sanitario “si permette” di invitare il cittadino perché è dimostrato che i benefici di quello specifico screening sono maggiori dei danni, sia per l’individuo, sia per la popolazione.

Gli screening spontanei, cioè non organizzati e non sistematici:

• aumentano le diseguaglianze di accesso (Palencia 2010; Giorgi Rossi 2012);

• non permettono un monitoraggio dei falsi positivi (possibili effetti negativi sulla salute) e dei falsi negativi (mancati benefici di salute) (Giorgi Rossi 2013);

• concentrano le risorse pubbliche su di una parte della popolazione, generalmente quella già più ricca e che fa già molti più esami di quanti siano necessari (spesso ricevendone più danni e meno benefici), mentre il resto della popolazione non viene intercettata (Palencia 2010; Giorgi Rossi 2012).

Il sovratrattamento è la regola nei casi di carcinoma mammario sovradiagnosticati: nessuno propone la sorveglianza dei carcinomi iniziali o in situ perché non si dispone di indicatori affidabili per l’identificazione delle neoplasie indolenti, perché il deciso shift verso stadi iniziali alla diagnosi è alla base della efficacia dello screening, e infine perché il trattamento sempre più conservativo adottato riduce l’impatto negativo del sovratrattamento. Consapevoli però dell’esistenza di un certo grado di sovradiagnosi e sovratrattamento, monitoriamo la terapia adottata [16] per identificare procedure troppo aggressive (ad esempio mastectomia vs chirurgia conservativa, chirurgia ascellare nei carcinomi in situ).La sovradiagnosi di carcinoma invasivi è teoricamente possibile nello screening del carcinoma della cervice uterina (ad esempio è sostenibile che un carcinoma cervicale stadio Ia in una donna di 65 anni al suo primo Pap test sia sovradiagnosticato), ma di fatto ogni eccesso da sovradiagnosi viene cancellato dalla grossolana riduzione di incidenza dovuta alla bonifica delle displasie cervicali, il reale meccanismo per cui lo screening è efficace, ben evidente i tutti i Paesi dove lo screening è adottato da oltre 30 anni. La facile comunicazione alla donna della innocuità di queste lesioni una volta trattate rende minimo l’impatto psicologico della consapevolezza di malattia, comune invece in caso di carcinoma invasivo.

Il sovratrattamento invece è realtà importante, anche se riguarda lesioni precancerose (carcinoma in situ e displasie gravi). Nonostante poche di queste lesioni siano destinate a evolvere in carcinoma, l’impossibilità di identificarle e la limitata invasività della terapia (conizzazione, resezione con ansa, spesso ambulatoriali o in day hospital e con restitutio ad integrum dell’anatomia) rendono accettabile una quota di sovratrattamento probabilmente attorno al 70-80%. Caso abbastanza analogo è quello dello screening del carcinoma colorettale. Anche qui non si può escludere la sovradiagnosi di forme indolenti, ma anche questo è cancellato dalla diminuzione di incidenza conseguente alla bonifica delle lesioni precancerose (adenomi). Tale bonifica è importante sia per lo screening endoscopico, anch’esso raccomandato ma di limitata diffusione [17] per la bassa rispondenza della popolazione, sia per il test del sangue occulto fecale (SOF), comunemente adottato: questo, ripetuto ogni 2 anni, consente la diagnosi di un numero di adenomi avanzati addirittura superiore all’endoscopia. Poca sovradiagnosi, quindi, ma certamente sovratrattamento, anche in questo caso di lesioni precancerose di cui poche sarebbero progredite fino a carcinoma ma che vengono trattate sia per la limitatezza delle terapie che per la notevole efficacia dello screening: la bonifica degli adenomi è spesso eseguita per via endoscopica ambulatoriale e i pochi casi di resezione limitata intestinale non hanno in genere sequele rilevanti.

Riassumendo, sovradiagnosi e sovratrattamento, sia pure presenti in misura non trascurabile, non giustificano dubbi sulla convenienza dei tre screening attualmente in atto nella CE e in Italia. I benefici dallo screening con mammografia, Pap test e SOF superano di gran lunga gli effetti negativi di sovradiagnosi e sovratrattamento,al momento inevitabili. Il fenomeno deve però essere monitorato per verificare eccessi, legati per lo più a protocolli di screening e trattamento inadeguati. Sovradiagnosi e sovratrattamento, invece, sono importanti al punto di controindicare lo screening di popolazione per il carcinoma prostatico.

Nonostante l’evidenza di efficacia [3], il carico in casi sovradiagnosticati e sovratrattati (48 per ogni vita salvata nello studio ERSPC) è inaccettabile. È peraltro possibile che il monitoraggio dello studio ERSPC (nel tempo il succitato rapporto 48:1 dovrebbe calare perché i carcinomi clinicamente significativi diagnosticati precocemente nel braccio di screening compaiono successivamente nel braccio di controllo) e la diffusione di scelte di sorveglianza attiva possano modificare il bilancio costi/benefici nei prossimi anni.